Computers as Theatre

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Computers as Theatre

Autore:

Brenda Laurel, autrice e ricercatrice, conosciuta per i suoi lavori sui giochi e generi dei computer. Le sue pubblicazioni includono The Art of Human-Computer Interface Design [L’Arte della progettazione di interfacce Uomo-Computer, n.d.t.] (Addison-Wesley, 1990) e Computers as Theatre [Computer come Teatro, n.d.t.] (Addison-Wesley, 1991), da quale è estratta questa sezione.


Tratto da:

Computers as Theatre (Reading, MA: Addison-Wesley, 1991). Copyright 1991 by Addison-Wesley Publishing Company Inc. Ristampato con la concessione di Addison-Wesley Publishing Company Inc.

Titolo Originale:

Computers as Theatre. Il saggio esplora l’interfaccia Uomo-Computer (forme grafiche, desktop dei computer, ecc.), come un’esperienza costruita o “rappresentata”.

Traduzione di:

Irene Baruffetti


Anno:

1991


Computer come Teatro

Il Mondo è un Palcoscenico

Al fine di paragonare, diamo un’occhiata al teatro. Abbiamo osservato che il teatro riporta alcune similitudini con la progettazione dell’interfaccia in quanto entrambi hanno a che fare con la rappresentazione di un’azione. Il dramma, a differenza dei romanzi o altre forme di letteratura, include il concetto di performance; dunque, gli spettacoli sono fatti per essere recitati. Un parallelo può essere visto nella progettazione dell’interfaccia. Nel suo libro The Elements of Friendly Software Design [Elementi di software design pratico, n.d.t.] (1982), Paul Heckel sottolinea: “Quando progetto un prodotto, penso come se il mio programma stesse facendo una performance per chi lo utilizzerà”. Nel teatro la recitazione di solito avviene in un’area chiamata palcoscenico. Il palcoscenico è popolato da uno o più attori che interpretano dei personaggi. Essi compiono delle azioni nel contesto fisico creato da scenografi e illuminotecnici. La performance, tipicamente, è vista da un gruppo di osservatori chiamato pubblico. Parte della “magia” tecnica che dà supporto alla performance, è incorporata nello scenario e negli oggetti presenti sul palcoscenico (finestre che si aprono e chiudono; tazze da tè che si rompono); il resto avviene nel retropalco e nelle aree “laterali” (dove è agganciato lo scenario, i sipari si aprono e si chiudono e sono prodotti gli effetti sonori), l’area “superiore” sopra al palcoscenico, che accoglie gli strumenti di illuminazione e i fondali o parti di scena che possono essere alzate o abbassate, e la cabina di illuminazione che di solito si trova sopra al pubblico sul fondo del teatro. La magia è creata sia dalle persone che dalle macchine, ma chi, cosa e dove esse si trovino non ha importanza per il pubblico. Non si intende, con questo, che il supporto tecnico alla performance teatrale non sia importante per il pubblico: quando uno spettacolo è “in atto”, semplicemente, i membri del pubblico non si preoccupano degli aspetti tecnici. Per un membro del pubblico, che è coinvolto nello spettacolo, l’azione sul palco è tutto ciò che esiste. In questo senso, gli spettacoli sono come i film: quando si è assorbiti in uno di questi, ci si dimentica del proiettore, e si può anche perdere la cognizione del proprio corpo. Per l’attore sul palco l’esperienza è simile, in quanto ogni cosa estranea alla scena è tagliata fuori, con l’eccezione delle risposte udibili e visibili del pubblico, che sono spesso usate dall’attore per aggiustare la propria performance in tempo reale (questo, a proposito, ci ricorda che gli spettatori del teatro non sono “passivi” in senso stretto, e si può dire che influenzino l’azione). Per l’attore e, similmente, per il pubblico, la definitiva “realtà” è ciò che sta avvenendo nel mondo immaginario sul palco - la rappresentazione. Quando i ricercatori analizzano la nozione di interazione nel mondo dei computer, a volte paragonano gli utenti dei computer al pubblico teatrale. Gli “utenti”, si può dire, sono come dei membri del pubblico che sono capaci di avere una maggiore influenza sull’azione in atto rispetto al sottile aggiustamento fornito dalla risposta del pubblico convenzionale. Di fatto, ho usato quest’analogia nella mia dissertazione di modo da creare un modello per la fantasia interattiva. Gli utenti di un sistema, ho argomentato, sono come membri del pubblico che possono salire sul palcoscenico e diventare diversi personaggi, alterando l’azione in base a cosa dicono e in base al loro ruolo. Pensiamoci un minuto. Cosa succederebbe se il pubblico salisse davvero sul palco? Loro non conoscerebbero il copione, tanto per cominciare, e ci sarebbero un mucchio di goffe esitazioni nel contesto. I loro vestiti e la loro pelle apparirebbero buffi sotto le luci. Uno stato di panico colpirebbe gli attori non appena cominciassero ad improvvisare un’azione che incorporerebbe gli interlocutori e produrre qualcosa che avesse integrità drammatica. O forse degenererebbe in un libero-per-tutti, come gli spettacoli interattivi d’avanguardia degli anni ’60 spesso facevano. Il problema riguardo all’idea del pubblico-come-partecipante-attivo è che porta allo scompiglio, sia psicologico che fisico. La trasformazione necessita di essere sottrattiva piuttosto che additiva. Le persone che stanno partecipando alla rappresentazione non sono più membri del pubblico. Non è che il pubblico si aggiunge agli attori sul palco; è che essi diventano attori – e la nozione di osservatore “passivo” scompare. In una visione teatrale dell’attività uomo-computer, il palcoscenico è un mondo virtuale. E’ popolato da protagonisti sia umani che generati dal computer e altri elementi contestuali alla rappresentazione (finestre, tazze da tè, scrivanie, o quant’altro c’è). La magia tecnica che supporta la rappresentazione, come in teatro, è dietro le scene. Se la magia creata da hardware, software, wetware non ha importanza; il suo unico valore sta in ciò che viene prodotto sul “palcoscenico”. In altre parole, la rappresentazione è tutto ciò che esiste. Immaginiamocelo come un esistenziale WYSIWYG. (1)

[...]


Una prospettiva artistica


Nel suo libro divulgativo The Elements of Friendly Software Design (1982), Paul Heckel caratterizza la progettazione del software come qualcosa che, primariamente riguarda la comunicazione . Osserva che “tra tutte le forme d’arte che possono insegnarci qualcosa a proposito della comunicazione, la più appropriata è l’arte di fare film”. Heckel sceglie la realizzazione di film come un esempio superiore alle forme più vecchie (come il teatro) perché “illustra il passaggio da una disciplina meccanica ad una forma d’arte”. Prosegue osservando che i film non riscuotono un grande successo di pubblico fino a che gli artisti non rimpiazzano i tecnici nel ruolo di principali creatori. Il libro di Heckel è pieno di riferimenti a illusione, performance e altre metafore teatrali e cinematografiche con esempi di software per illustrare ogni osservazione. Egli dà all’uso della metafora nella progettazione dell’interfaccia un taglio differente, impiegando registi, scrittori, attori e altri “strumenti di comunicazione” come metafore per il progetto di progettazione del software. Nel 1967, Ted Nelson esaminò l’evoluzione del film con l’intento di capire come il nuovo mezzo mediatico che aveva visionato – l’ipertesto – dovesse svilupparsi. Considerando il modo in cui il palcoscenico aveva influenzato i film, egli notò che “il contenuto del palcoscenico, quando adattato, era appropriato e utile, mentre le tecniche del palcoscenico (come la nozione di proscenio e l’insistenza di un’azione continua all’interno delle scene) non lo erano” (Nelson, 1967). Dal punto di vista vantaggioso del 1990, noi possiamo vedere una migrazione sia delle tecniche che del contenuto dal film al mezzo informatico. Se uno prende il teatro e il mezzo cinematografico come sottoinsiemi di una categoria più ampia, come rappresentazioni di azioni in mondi virtuali, allora un’altra similitudine chiave tra questi media e i computer riguarda i loro elementi fondamentali di forma e struttura e il loro scopo. Sia Heckel che Nelson portano la nostra attenzione sulla centralità del “far-credere” nella concezione e nella progettazione del software. La visione di un tecnico che progetta software è basata sulla logica, realizzando un ordinato set di funzioni in un programma internamente elegante. Nella visione di Heckel, l’approccio migliore è basato sulla visione, che realizza un ambiente per l’azione attraverso illusioni consistenti ed evocative. Secondo Nelson, questa è la creazione di “virtualità” – rappresentazioni per cose che possono non essere mai esistite prima nel mondo reale. (Nelson, 1990). Il ruolo dell’immaginazione nel creare rappresentazioni interattive è chiaro e non può essere sopravvalutato. In questo senso, una parte di software per computer è un esercizio di collaborazione tra l’immaginazione del creatore (o creatori) del programma e delle persone che lo usano. L’immaginazione supporta una costellazione di fenomeni umani distinti, che include sia pensiero simbolico che la creazione di rappresentazioni. C’è una storia che parla di una scimmia e alcune banane che ogni studente laureando in psicologia ha sentito. Un ricercatore pone una scimmia in una stanza con un casco di banane appese al soffitto e una scatola sul pavimento, la scimmia prova in vari modi a raggiungere le banane – allungandosi, saltando e così via – ed eventualmente si arrampica sulla scatola. Una persona, in una situazione simile, rifletterebbe sulla maggior parte delle possibili strategie nella propria testa e metterebbe in pratica solo quelle che sembrano promettenti, forse solo quella che avrebbe successo. Per la scimmia, il centro dell’attenzione sono le vere banane; per l’uomo, è quello che avviene dentro la sua testa. L’immaginazione è una scorciatoia attraverso il processo di provare e sbagliare. Ma l’immaginazione serve a qualcosa di più che a risolvere i problemi del mondo reale. L’impulso di creare rappresentazioni interattive, semplificate dalle attività uomo-computer, è solo la più recente manifestazione dell’antico desiderio di rendere palpabile ciò che si immagina – il nostro insaziabile bisogno di esercitare il nostro intelletto, giudizio e spirito in contesti, situazioni ed anche personalità che sono differenti da quelle della nostra vita di tutti i giorni. Quando una persona riflette su come arrampicarsi su un albero, l’immaginazione funge da laboratorio per esperimenti virtuali in fisica, biomeccanica e fisiologia. Per quanto riguarda la giustizia, l’arte o la filosofia, l’immaginazione è il laboratorio dello spirito. Quello che facciamo nella nostra testa può essere semplicemente un espediente di “guardare avanti”, privatamente o intendendo condividere o comunicare. I romanzi di Ayn Rand, per esempio, o i drammi di George Bernard Shaw creano mondi dove le persone indirizzano le loro difficoltà e i loro problemi, sia concreti che astratti, e mettono in atto le loro scoperte, risposte e soluzioni. Queste rappresentazioni sono interamente contenute nel reame dell’immaginazione, tuttavia ci trasportano in altre possibili prospettive e possono influenzarci in modi che sono ancora più risonanti e pieni di significato rispetto alle esperienze realmente vissute. L’arte è la rappresentazione esteriore di cose che avvengono nella mente dell’artista. Le forme artistiche differiscono per quanto riguarda il materiale impiegato, il modo in cui le rappresentazioni sono create, cosa si propongono di rappresentare e come si manifestano nel mondo. Forme differenti hanno differenti poteri – potere di impegnare, generare potere e informazione, evocare risposte. Ma tutte hanno come fine la rappresentazione di alcune visioni interiori che l’artista desidera creare fuori dai limiti del proprio cranio, rendendolo disponibile in qualche forma alle altre persone. A cosa servono tali rappresentazioni? Aristotele definì catarsi come il fine di uno spettacolo teatrale, e vide ciò come il piacevole rilascio di emozioni, specificatamente quelle emozioni evocate dall’azione rappresentata nello spettacolo. (2) Dal suo punto di vista, la catarsi avveniva durante il vero “tempo di esecuzione” dello spettacolo, ma alcuni teorici contemporanei non sono d’accordo. Un drammaturgo tedesco dei primi anni del ventesimo secolo, Bertolt Brecht, estese il concetto di catarsi al di fuori dei confini temporali della performance (Brecht, 1964). Egli affermò che la catarsi non è completa finché il pubblico non prende ciò che ha assimilato dalla rappresentazione e lo mette in pratica nella propria vita. Nell’ipotesi di Brecht, la rappresentazione vive tra immaginazione e realtà, servendo da conduttore, amplificatore, chiarificatore e motivatore. Mi sembra che le rappresentazioni costruite tramite il computer lavorino fondamentalmente allo stesso modo: una persona partecipa in una rappresentazione che non è identica alla vita reale, ma che ha effetti o conseguenze nel mondo reale. La rappresentazione e la realtà stanno tra di loro in una relazione particolare e necessaria. In molte teorie contemporanee riguardo alle interfacce, comunque, il comprendere questa relazione è poco chiaro. Da una parte, noi parliamo di “strumenti” per “utenti” da impiegare nell’esecuzione di vari lavori con i computer. Utilizziamo la psicologia per avere informazioni riguardo a come le persone utilizzano gli strumenti e qual è il modo migliore per progettarli. Arriviamo a concetti come “taglia” e “incolla” ed anche “scrivi” che sembrano suggerire che le persone che lavorano con i computer stanno lavorando in un’area concreta. Spesso sbagliamo a vedere queste come rappresentazioni di strumenti e attività e a mettere in evidenza come questo le rende differenti da (e spesso meglio che) le cose reali. D’altra parte, impieghiamo artisti grafici per creare icone e finestre, immagini di piccole mani e cartelle di file e lazi e barattoli di vernice gocciolante, perché stiano per noi nel mondo del computer. Qui è utilizzata l’idea di rappresentazione, ma solo in un senso superficiale. Nozioni confuse come “metafora d’interfaccia” sono utilizzate per mettere in risalto le differenze tra rappresentazione e realtà, in modo da disegnare piccole linee cognitive tra ciò che vediamo sullo schermo e le attività “reali” che gli psicologi ci dicono che stiamo eseguendo. Le metafore d’interfaccia rumoreggiano come le macchine di Rube Goldberg, aggiustate e legate insieme ogni volta che si rompono, finchè sono così incrostate degli artefatti delle riparazioni che non siamo più in grado di interpretarle o riconoscere le loro origini. Questa confusione sulla natura dell’attività uomo-computer può essere alleviata pensando a ciò in termini di teatro, dove la speciale relazione tra rappresentazione e realtà è già stabilita confortevolmente, non solo in termini teorici, ma anche nel modo in cui la gente progetta e vive in prima persona i lavori teatrali. Entrambi i campi impiegano le rappresentazioni come un contesto per il pensiero. Entrambi mirano ad amplificare ed orchestrare l’esperienza. Entrambi hanno la capacità di rappresentare azioni e situazioni che non esistono e neanche potrebbero esistere nel mondo reale, di modo da invitarci ad estendere le nostre menti, i nostri sentimenti e i nostri sensi e così svilupparli. Dal punto di vista del semiologo Julian Hilton (1991) il teatro è “essenzialmente l’arte di mostrare, l’arte del segno... include la sinestesia di sistemi simbolici e iconici (parole e immagini che si muovono) in un singolo e indivisibile evento rappresentato.” Hilton utilizza il mito di Pigmalione e Galatea (familiare a molti come la base del Pigmalione di George Bernard Shaw e del suo adattamento musicale, My Fair Lady) per esprimere la relazione tra il teatro e il dominio dell’intelligenza artificiale. Egli descrive il valore dell’abilità teatrale nel rappresentare cose che non hanno riferimenti, in termini semiotici, nel mondo reale:

Galatea in senso letterale non imita niente, e così come definisce una classe di icone (la statua, dopotutto, è una rappresentazione di se stessa) può, simultaneamente, essere un segno. È questa categoria di segni non-imitativi che abilità il segno a liberare il suo vero potere, ragion per cui ha tutte le infinite valenze del simbolo mentre mantiene l’immediata riconoscibilità dell’icona. (Hilton, 1991)

I computer sono macchine per la rappresentazione che possono emulare qualsiasi mezzo di comunicazione conosciuto, come osserva Alan Kay:

La natura versatile del computer è tale che può comportarsi come una macchina o come un linguaggio da sviluppare e sfruttare. È un mezzo di comunicazione che può simulare dinamicamente i dettagli di qualsiasi altro mezzo, includendo quei mezzi che non possono esistere fisicamente. Non è uno strumento, anche se può comportarsi come molti strumenti. È il primo meta-medium, così come ha dei gradi di libertà nella rappresentazione e nell’espressione mai incontrati prima e ancora appena studiati. (Kay, 1984)

Pensare riguardo alle interfacce è pensare troppo in piccolo. Progettare un’esperienza uomo-computer non significa costruire un desktop migliore. Significa creare mondi immaginari che hanno una relazione speciale con la realtà – mondi in cui noi possiamo estenderci, amplificarci, ed arricchire le nostre capacità di pensare, sentire e agire. Speriamo che questo capitolo vi abbia persuaso che la conoscenza del campo del teatro posso aiutarvi in questo lavoro.


Link esterni

Sito web (in inglese) con biografia e informazioni sull'autrice

Per acquistare il saggio (in lingua originale)


Note

1. WYSIWYG sta per “what you see is what you get” (ciò che vedi è ciò che ottieni), coniato da Warren Teitelman a Xerox PARC. È stato utilizzato come paradigma per interfacce di manipolazione diretta, ma alcuni teorici hanno contestato il suo valore (vedi, per esempio, l’articolo di Ted Nelson del 1990, “Il modo corretto di pensare la progettazione del software” in The Art of Human-Computer Interface Design)

2. Non bisogna dire che gli spettacoli debbano suscitare solo emozioni piacevoli; il piacere del rilascio rende divertenti anche le emozioni peggiori, in un contesto teatrale. La catarsi è discussa più approfonditamente nel capitolo 4 (di Computers as Theatre)


Riferimenti

Brecht, Bertolt, Brecht on Theatre [tradotto in italiano come Scritti teatrali, n.d.t.]. Traduzione di John Willet, New York, 1964.

Heckel, Paul, The Elements of Friendly Software Design [Elementi di software design pratico, n.d.t.] (New York: Warner Books, 1982)

Hilton, Julian, “Some Semiotic Reflections on the future of Artificial Intelligence” [“Alcune riflessioni semiotiche sul futuro dell’intelligenza artificiale”, n.d.t.] in R. Trappl, ed., Artificial Intelligence: Future, Impacts, Challenger [Intelligenza Artificiale: futuro, impatti, sfide, n.d.t.] (New York: Hemisphere, 1991)

Kay, Alan. “Computer software” Scientific American, vol. 251, n°3 (settembre 1984), pp.52-9 Nelson, Theodor Holm, “Getting It Out of Our System” [“Portandolo fuori dal nostro sistema”, n.d.t.] in George Schecter, ed., Information Retrieval: a critical View [Riacquistare il possesso dell’informazione: un esame critico, n.d.t.] (Philadelphia, Penn: Frankford Arsenal, 1967).

Nelson, Theodor Holm, “Il modo corretto di pensare alla realizzazione di software” in Brenda Laurel, ed., The Art of Human-Computer Interface Design [L’Arte della progettazione di interfacce Uomo-Computer, n.d.t.] (Reading, MA: Addison-Wesley, 1990)