Videoarte
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Cronologia
Il video comincia ad essere ampiamente utilizzato in Europa e negli Stati uniti, solo alla fine degli anni Sessanta; in un clima artistico in cui il concetto di opera d'arte è rimesso completamente in discussione. Le tendenze artistiche di questo periodo (Land Art, Body Art, Minimalismo, Arte Povera ecc…) affermano una nuova dimensione estetica e una dilatazione spazio-temporale dell'oggetto artistico. La videoarte nasce in questo periodo dove la tecnica tradizionale è rifiutata a favore delle sperimentazioni di novi mezzi. Lo sviluppo tecnologico apre agli artisti nuove possibilità per la sperimentazione, così come accadde con l'avvento della fotografia. L'opera d'arte esce dagli schemi tradizionali così come la figura dell'artista assume un ruolo diverso.
1952 Lucio Fontana pubblica il manifesto del movimento spaziale per la televisione (firmato da: Ambrosiani, Burri, Tancredi, Deluigi ecc…) .
1958 Vostell realizza i suoi primi Tv Dé-coll/age.
1963 A Wuppertal, Galleria Parnass, la mostra di Paik Exposition of Music-Electronic Television, dove interagiscono musica elettronica e immagine elettronicha.
1965 A New York Paik realizza il primo video d'artista realizzato con una telecamera portatile intitolato Café Gogo.Successivamente presenta alla galleria Bonino la mostra Electronic Art, con televisori modificati.
1969 Gerry Shum apre a Colonia la Video Gallery, gira un film per la televisione intitolato "Land Art". La reteWgbh-tv di Boston organizza il programma sperimentale “The medium is the medium‿ ( sovvenzionato dalla Rockefeller Foundation) con opere di Nam June Paik ecc… A New York la Howard Wise Gallery organizza la prima mostra interamente dedicata alla videoarte.
1970 A Bologna si inagura la mostra Gennaio 70. Nam June Paik inventa il sintetizzatore (l'Abe-Paik), in collaborazione con l'ingegnere giapponese Shuya Abe. Gerry Schum gira "Identification". Prima installazione di un corridoio di Bruce Nauman in una galleria di Los Angeles. Ira Schneider e Beryl Corot editano il primo periodico sul video:"Radical Software" che pubblica undici numeri fino al 1974.
1971 A New York apre The Kitchen (tra i fondatori Steina e Woody Vasulka) che presenta l'attività di artisti quali Paik, Dan Graham, Peter Campus, Ira Schneider, Bill Viola ecc.. M Shamberg pubblica Guerrilla Telelevision, sull'uso politico e di contro informazione del video.
1972 A Berlino viene fondata la videoteca Nbk. La galleria l'Attico di Roma organizza un festival di performance, che viene documentato col video da Luciano Giaccari. Bill Viola studia all'Experimental Studios, College of visual and Performing Arts di Syracuse, e inizia a lavorare con il video. Nam June Paik crea a New York il Global Grove, un laboratorio per la sperimentazione video per la rete televisiva Wnet. Gary Hill inizia ad utilizzare il video. A Firenze inizia l'attività di Art/Tapes/22, laboratorio di diffusione e produzione di video d'artisti.
1974 Al Kunstverein di Colonia viene organizzata la mostra Video Tapes, con opere di Acconci e Nauman. A Ferrara inizia le attività il Centro Videoarte di Palazzo dei Diamanti. L'International Cultureel Centrum di Anversa crea uno studio con apparecchi di registrazione a disposizione degli artisti. Bill Viola utilizza per la prima volta la telecamera a colori per realizzare "Red Tape". Mostra Artist's Video al Palais des Beaux Arts diBruxelles (opere di Nam June Paik, Wolf Vostell, Joseph Beuys ecc..). Dan Graham partecipa alla mostra Art Video Confrontation di Parigi al Musée d'Art Moderne.
1975 Al Global Village di New York si svolge il primo festival annuale di video documentari.
1977 Documenta 6 a Kassel presenta una retrospettiva di videoinstallazioni e video, alcuni dei quali sono trasmessi via satellite negli Stati Uniti.
1979 Inizia il VideoArt festival di Locarno.
1982 Iniziano le attività: al festival Imagina a Montecarlo e del Festival Art Elettronica di Linz. A Milano si costituisce il gruppo Studio Azzurro.
1983 Inizia a Bologna la rassegna L'Immagine Leggera. Inizia il Festival di arte elettronica di Camerino.
1984 Paik diffonde via satellite il video "Good Morning Mr. Orwell". Alla Biennale di Venezia c'è una sezione di video installazioni e videotape. A Prato si svolge la mostra "Immagini da computer".
1985 A Pisa nasce l'associazione Ondavideo.
1986 Iniziano le attività del Festival Art Elettronica a Linz. La Biennale di Venezia comprende un settore sulla videoarte e sulla computer arte.
1987 A Milano si apre la mostra Arte e computer.
1990 A Parigi si svolge la mostra "Passage de l'immage". A Milano si inaugura la rassegna Invideo.
1992 A Torino si innagura la mostra Arslab.
1993 A Madrid si inagura la mostra itinerante di Bruce Nauman. Paik espone alla Biennale di Venezia.
1996 A Paleremo inizia la rassegna L'Immagine Leggera.
1998 A New York il Whitney Museum organizza la retrospettiva itinerante di Bill Viola. Al Guggenheim Soho Museum sempre a New York si inaugura una personale di Fabrizio Plessi.
2000 Al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, personale di Nam June Paik.
2001 Inizia il festival Netmage.
I critici e gli storici che si sono occupati di Videoarte: Enrico Crispolti, Vittorio Fagone, Renato Barilli, Maurizio Calvesi, Germano Celant
Artisti
Tra i principali artisti precursori della videoarte internazionale ricordiamo: Nam June Paik considerato il pioniere e padre fondatore, Wolf Vostell, Bill Viola, Gary Hill, Peter Campus, Dan Graham, Woody Vasulka che con la moglie Steina nel 1971 ha fondato a New York “The Kitchen” storico spazio laboratorio di sperimentazione e promozione della videoarte quindi Bruce Nauman, Warhol Andy, Cindy Sherman ecc… . Attualmente protagonisti nella scena della videoarte ricordiamo Tony Oursler e Matthew Barney, mentre tra gli artisti italiani che lavorano con le immagini in movimento citiamo Marco Agostinelli, Fabrizio Plessi, Matteo Basilè, Ottonella Mocellin, Stefano Cagol, Marcella Vanzo, Maurizio Collini, Marcello Maloberti, Sara Rossi, Anna Olmo e altri.
Storia della Videoarte
Dagli anni Sessanta ad oggi
Introduzione: Rapporto tra arte e tecnologia
Col futurismo italiano nasce il mito della tecnica, sotto specie di macchina. Per i futuristi la macchina è mito ed insieme simbolo. E’ singolare come in una società fortemente industrializzata come quella inglese non esprima nello stesso periodo artisti suggestionati dalla nuova dimensione del mondo provocata dallo sviluppo tecnologico e che in un’altra società fortemente industrializzata come quella tedesca di inizio secolo la macchina venga vista addirittura come simbolo negativo e oppressivo. Il dato sorprendente è che questo atteggiamento muta radicalmente nel dopoguerra quando si assiste a un orientamento diverso della relazione tra arte e tecnologia: la tecnica viene assunta, a questo punto, non più come simbolo o immagine mitizzante, ma come regola universale di un nuovo canone moderno. Si ha così la necessità di un’accurata progettazione tipica non solo della macchina ma di ogni produzione industriale. Dopo la fase di assunzione della tecnica come mito, della tecnica come regola universale, esiste oggi una consapevole e matura terza fase nella relazione arte e tecnologia e che può essere indicata sotto la formula: tecnica come strumento. Se si assume come fondamentale per l’arte contemporanea i suoi sviluppi la relazione arte e tecnologia, allora la periodizzazione di questa deve essere diversamente rubricata. La più accettabile può essere considerata la data del 19 agosto 1839. E’ da lì che, con la presentazione a Parigi all’Accademia delle Scienze e all’Accademia di Belle Arti della dagherrotipia, prende avvio il cammino della fotografia, della nuova tecnica di produrre immagini. Questa data è ricordata per la battuta di commento di Paul Delaroche (“oggi la pittura è morta‿), considerata una delle gaffes più vistose della cultura occidentale. Senza dubbio, tuttavia, l’atteggiamento della pittura verso il mondo, verso i propri contenuti disciplinari, da quel momento è mutato. La pittura sarà obbligata a guardare la fotografia non meno di quanto la nuova espressione tecnica sarà costretta a chiedere in prestito alla pittura punti di vista e canoni di rappresentazione. La luce della fotografia intrigherà pittori come Edgard Degas più che la possibilità di una mimesi automatica. La possibilità di duplicazione sconvolgerà, è stato ben studiato, i modelli di crescita e di collocazione nel campo sociale di ogni possibile opera d’arte visuale. Il secondo momento che irrompe vitalmente nello sviluppo delle arti visuali è il cinema. Esso contagia letteralmente la ricerca artistica d’avanguardia – si pensi al cinema sperimentale degli anni venti – che in contraccambio è in grado di fornire al cinema il nucleo vitale di un’estetica autonoma e specifica. Non tenuta nel dovuto conto è l’influenza della radio, avvertita solo dal versante della critica d’arte da Rudolph Arnheim nella svolta degli anni trenta, come nuova gestalt di una simultaneità di fruizione sino allora impensabile. Arneheim teorizza a quel punto una Radio come arte, un Cinema come arte. Il suo disegno di una nuova estetica viene però accolto solo come una provocatoria richiesta di attenzione. Le ultime due irruzioni nella linea sin qui tracciata riguardano l’immagine elettronica del video (registrabile nel lavoro degli artisti a partire dai primi anni sessanta – Vostell e Nam June Paik -) e quella dei computer le cui prime prove pionieristiche appartengono agli anni sessanta (John Whitney Sr.). Il dato più sorprendente degli anni settanta-ottanta è la diversa relazione che viene a stabilirsi tra questi modelli d’immagine e il suono. Immagine e suono nati nello stesso modellamento di un inedita misura di tempo/spazio propongono al fruitore una possibilità di risoluzione che vede incrociare immagine visiva e immagine sonora in una sintesi nuova che ne potenzia l’efficacia linguistica. Il moderno del mondo delle immagini passa attraverso questa linea di sviluppo; la possibilità di recuperare una comunicazione larga e nello stesso tempo critica è affidata all’uso pertinente e creativo di questi strumenti. Essi non sono il traguardo di un processo di innovazione, che le arti visuali nel mondo contemporaneo non rifiutano, ma un mezzo potente e produttivo.
Storia della Videoarte
L’origine della televisione è legata sul piano tecnico e su quello della strutturazione linguistica agli sviluppi della radio. La dominanza del sonoro, il valore del tempo reale, l’immissione in uno spazio sociale a larga apertura sono caratteristiche che segnano l’evoluzione della televisione fin dagli inizi. I primi avvii della televisione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si hanno nella seconda metà degli anni trenta. L’affermazione del nuovo mezzo elettronico su scala mondiale come mezzo rivoluzionario di comunicazione si ha solo alla fine degli anni quaranta, nei primi anni cinquanta. Non c’è una uniformità di giudizio sulla data precisa della nascita della videoarte, comunque il video, secondo gli artisti, compare come cattiva coscienza della televisione quale mezzo di comunicazione di massa, e come tale si è evoluto nel tempo. Non è un caso che gli artisti inizino a riflettere sulla televisione e sulle sue potenzialità prima che siano disponibili sul mercato le telecamere con registratore portatile. E’ negli anni cinquanta e sessanta che, in ambito artistico, nasce una grande attenzione verso l’esperienza del quotidiano e la presenza fisica, materiale dello spettatore all’interno dell’opera, condividendo anche, per estensione, l’interesse per il sociale. Questi filoni mettono in discussione le tradizionali gerarchie e categorie dell’arte per mezzo di una rivalutazione della vita quotidiana. In pratica l’interesse degli artisti si sposta verso il mondo, gli oggetti che lo popolano e le sue dinamiche sociali e le opere d’arte cambiano e si sviluppano come eventi e azioni. In questo contesto il confronto con la televisione, che rappresenta ormai una realtà quotidiana ben definita e consolidata, diviene inevitabile. Ciò che salta subito agli occhi degli artisti è la profonda divaricazione tra la realtà della televisione come istituzione e le possibilità della televisione come mezzo di comunicazione. E’ la contraddizione tra l’utilizzo effettivo e riduttivo del mezzo da parte degli apparati statali e commerciali e le sue potenzialità espressive non ancora sfruttate ad attirare l’attenzione. Già Lucio Fontana aveva intuito all’inizio degli anni Cinquanta le prospettive dischiuse dalla televisione come mezzo per l’arte e la comunicazione, ma è soltanto con i TV Decollage di Wolf Vostell, o con le televisioni “distorte‿ create da Nam June Paik che si delineano delle pratiche d’intervento concreto, non solo teorico, sul mezzo, per trasformarne funzioni e ricezione. Nam June Paik nel marzo 1963 espone nella Galerie Parnass di Wuppertal l’immagine prodotta dalla televisione e manipolata per una serie di creative distorsioni: un'installazione con 13 video-monitor, messi a caso, che riempivano lo spazio con l'emissione di immagini ferme interagenti con gli spettatori. Sempre Nam June Paik crea il primo video d’artista nell’ottobre nel 1965 quando il portapack della Sony rende accessibile il medium elettronico sotto la specie di una tecnologia leggera. Con queste date si identifica così la nascita della videoarte. Da questi primi passi nascono una miriade di idee e invenzioni, che per ben 40 anni hanno avuto un ruolo fondamentale nell'introduzione - accettata quasi subito - delle immagini elettroniche in movimento nel mondo dell'arte. In breve Paik diventa un "genio" dei media per la sua straordinaria capacità di proporre forme-immagini, ottenute con mezzi tecnologici, capaci però di coinvolgere tutti i sensi, di mettere in scena un movimento proteiforme di un'apertura infinita, un gioco complesso che coinvolge inevitabilmente anche l'interprete. Per capire l'intensa concentrazione, lo sforzo di introspezione e di controllo compiuti da Paik bisogna tener presente che egli, nel suo lavoro, ha saputo innanzitutto far convivere interessi umanistici e musicali, una filtrata e poetica cultura Zen, l'eredità delle avanguardie del Novecento, legando il tutto con una conoscenza perfetta della tecnologia e dell'intelligenza artificiale. Se generalmente l’avvio delle esperienze della videoarte è riconosciuto al contributo di Paik, il TV-dé-coll/age di Wolf Vostell, una singolare destrutturazione nello spazio dell’apparecchio televisivo, ridotto a singole unità disperse nell’ambiente, è del 1958-59. L’episodio stabilisce per qualche verso una priorità delle analisi e ricomposizioni spaziali legate a un’utilizzazione dell’immagine elettronica rispetto all’originale ricerca di un nuovo codice di rappresentazione visuale in grado di attivare, sul piano linguistico, la produzione video (videografia). Vostell e Paik mettono in mostra televisori accesi che agiscono in modo differente dal normale, manomessi da interventi che li modificano dall’interno creando immagini elettroniche di tipo inedito, o alterando la ricezione del segnale broadcast. La novità di questi lavori, però non consiste nella presenza dell’oggetto televisore nell’opera d’arte, ma nel tipo di rapporto instaurato con il mezzo televisione: per la prima volta, e prima ancora che questa possibilità sia realmente fruibile attraverso le apparecchiature di videoregistrazione amatoriale, si dimostra la possibilità di una televisione controllata e prodotta direttamente dall’utente. In queste opere vi è anche una critica all’‿industria culturale‿, al potere economico ed ideologico della televisione, alla nozione di “cultura alta‿ e a quella di arte in quanto esperienza separata dalla vita ordinaria di tutti i giorni, un intento comune ai più diversi movimenti artistici del periodo, da Fluxus all’Internazionale Situazionista, dai francofortesi agli strutturalisti e, per quello che concerne più da vicino l’arte, testimonia il desiderio e il tentativo di un confronto tra artista, opera d’arte e pubblico in grado di riformulare su nuove basi gli obiettivi della pratica artistica. Il primo approccio degli artisti con la televisione si inserisce in questo generale dibattito. Demistificanti verso l’istituzione televisione e sperimentali dal punto di vista tecnologico, le azioni di Paik e Vostell prefigurano la possibilità concreta di un utilizzo radicalmente diverso del mezzo, in cui l’utente partecipa fattivamente alla produzione degli eventi televisivi. Fin dalle prime esperienze della videoarte (anni Sessanta) si è delineato un orizzonte differenziato, aperto e versatile, pronto a impossessarsi, decostruire e riassemblare tutti i modelli e metodi della comunicazione audiovisiva: nei confronti del nuovo e inusuale strumento di produzione e riproduzione di immagini in movimento e di suoni, gli artisti hanno condotto una varietà di sperimentazioni incentrate fondamentalmente sulla manipolazione delle sue trasmissioni o/e del dispositivo stesso. Da un lato dunque hanno assunto come punto di riferimento una realtà visiva già data e conformata, esterna, un involucro pieno di tempo (reale o differito) e di memoria su cui esercitare le proprie variazioni creative; dall'altro il funzionamento stesso del mezzo, la sua potenzialità tecnologica e le relative articolazioni linguistiche, un medium-strumento-contenitore direttamente disponibile a riplasmarsi nella creazione di immagini autonome, senza referente nella realtà. Una terza ipotesi si è imposta rapidamente con l'avvento della telecamera portatile che ha aperto ulteriori possibilità di intervento nella rielaborazione linguistica, attraverso la ripresa e le sue svariate forme di interpretazione, all'interno di un intrigante rapporto tra opera e visione. Questi diversi modi d'uso dello strumento elettronico da parte degli artisti si sono immediatamente intrecciati, integrandosi con molteplici altri mezzi e motivazioni nella multiforme attività di artisti provenienti da campi diversi, la musica, la fotografia, il cinema, la pittura, la scultura, il teatro, la danza, e con varie forme di azioni, ambientazioni, modalità espressive e sperimentazioni che sono state ibridate, reinventate, alimentandosi reciprocamente nella creazione di un linguaggio meticcio. Il lavoro artistico in questo campo si è caratterizzato dunque costantemente come veicolo di uno scambio di modelli operativi e di modalità di formalizzazione e di visione, contribuendo a spiazzare e ridefinire la nozione stessa di arte in un territorio intermedio; tanto più in quanto la ricerca degli artisti è sempre dialetticamente collegata alle tendenze che caratterizzano il panorama artistico coevo. Infatti l'ambito in cui si è formata la videoarte, ormai più di trent'anni fa, è quello degli orientamenti culturali delle Neoavanguardie, che non considerano più le opere d'arte come oggetti in senso tradizionale, ma come situazioni, azioni, ricerche di nuovi e diversi processi della comunicazione estetica, da Fluxus al postmoderno, passando per l'happening, la performance, la pop art, la body art, la land art, l'arte povera, il minimalismo. Per strutturare poi una propria via, in alcuni casi occasionale, in altri più approfondita e continuativa, acquisendo identità, finezza, narratività, articolazioni specifiche, a seconda del relazionarsi più selettivo con il cinema, con la musica, con la scultura o la pittura o l'ambientazione. In tale pluralità si pone sempre, come dato intrinseco e ineliminabile, un rapporto strutturale con la tecnologia, che ha modificato sostanzialmente i tradizionali parametri del fare artistico; non esistono più nella videoarte supporti, pennelli, pigmenti, gesti, materia, ma solo un flusso di luci capaci di prendere qualsiasi forma e colore, in continua mutazione, interconnessi con lo spazio e con il tempo, con oggetti e situazioni; eliminato il rapporto tra la mano e il fare, e anche il rapporto tra mano e macchina, subentra - data la complessità, la versatilità e anche la carica simbolica e sociale degli strumenti utilizzati - una relazione mente-macchina che condensa ed è l'opera stessa, in una inesauribile ricerca che trasmuta e reinterpreta ogni acquisita procedura di espressione e di percezione. La storia della Videoarte costituisce una chiave di lettura degli orientamenti estetici del moderno e del postmoderno; testimonia il profondo cambiamento nel rapporto tra l’artista, gli strumenti, l’opera e il pubblico ed evidenzia il grande interrogativo sui destini dell’arte nell’età dell’elettronica e dell’informatica. Europa e America si sono scambiate tra la fine del 1960 e il 1980 esperienze del campo della ricerca video in un circuito molto veloce che non ha equivalenti in nessuna delle forme artistiche tradizionali. La facilità di diffusione delle produzioni video, anche se non agevole per le installazioni, ha consentito una rapida trasmissione di queste esperienze.
Anni ‘60
La storia vera e propria del video inizia dopo il 1965, anno in cui la Sony lancia sul mercato statunitense il portapak, diffuso poi in tutto il mondo a partire dal 1967. Due gli artisti che riescono subito ad appropriarsene: Nam June Paik e Les Levine. I primi video realizzati dai due sono emblematici perché indicano le differenti direzioni su cui si avvierà poi il video. Da un lato, il famosissimo Cafè Gogo in Greeenwich Villane, 152 Bleeker Street, realizzato da Nam June Paik dal finestrino di un taxi attraverso le vie di Manhattan durante la visita newyorkese del papa, sancito da molti come il primo video d’arte della Storia; dall’altro, il meno noto BUM, firmato da Les Levine fra i barboni delle strade di New York e considero dei più come una sorta di documentario poco elaborato. In questi consolidati giudizi si rintracciano le prese di posizione che caratterizzeranno in seguito gli atteggiamenti e il sospetto della critica verso il video, imputato di connivenze extraartistiche moleste. Il video è infatti uno strumento particolare, poliedrico per natura, impossibile da definire in termini univoci. In questa prima fase, negli anni Sessanta, il nuovo mezzo elettronico viene esplorato nella sua qualità di strumento capace di stabilire un tipo di immagine cha ha una inedita e produttiva densità, fisica e comunicativa, orientata in contrapposizione dichiarata, contro le altre immagini, banali e massificate della televisione. La primaria preoccupazione degli artisti di quel periodo è l’esplorazione e la ridefinizione del mezzo elettrico.
Anni ‘70
Nella seconda fase, gli anni settanta, il video adatta una sua ragionata retorica dell’immagine elettronica alle espansioni immateriali delle arti visuali (è il momento dell’arte concettuale, minimalista, dei comportamenti della body art e della performance). In particolare viene indagata con particolare intensità la complessa dimensione temporale che il nuovo mezzo mette in campo. E’ esistita in questi anni un’attitudine “ingenua‿ nei confronti delle immagini della nuova tecnologia. Queste immagini sono state lette e provocate verso una collocazione che le facevano comunque dipendere dall’universo delle arti visuali convenzionali senza accettare il fatto che esse vivevano una stessa relazione “forte‿ con il cinema e con la televisione. Esse venivano, soprattutto, nel campo del video, prolungate verso un’estenuazione temporale che sfidavano la dimensione speculare del tempo reale tipica del nuovo mezzo. Le immagini sfruttavano la densità e le luminosità del nuovo corpo sul quale venivano prodotte sfidando la bassa definizione (almeno dall’Impressionismo in poi la bassa definizione non è avvertita dagli artisti come uno svantaggio). I primi anni settanta devono essere considerati gli anni d’oro. In questo periodo le produzioni degli artisti riescono a raggiungere canali di grande diffusione in trasmissione sperimentale e la grande industria produttrice dei dispositivi leggeri per la ripresa video incoraggia la ricerca degli artisti peraltro ben disposti al nuovo mezzo per il particolare clima dell’arte in questo periodo. Gene Youngblood ha dichiarato nel suo libro “Expanded Cinema‿ (uno dei primi saggi sulle risorse video) che chi lavoro nel video, lavora contro la televisione; non c’è stato autore video che abbia mancato di ribadire, almeno per quanto riguarda gli anni settanta, questa dichiarazione di principio. Infatti le opere di questi anni chiedevano di essere fruiti nello spazio delle gallerie d’arte; la televisione omologante culturale al basso livello, la televisione come sguardo miope e distratto, la televisione come strumento di sopraffazione ideologica. Nato dall’approccio tra scienza, tecnologia e comunicazione, il mezzo televisivo è un mezzo di potere, ma anche di resistenza al potere; è uno strumento di controllo, ma produce anche informazione; è un processo, ma è anche un prodotto; si avvale di materiali instabili, soggetti a rapido decadimento, ed è basato su una tecnologia in continua evoluzione che impone un progressivo avvicendamento di strumentazioni e apparecchiature; designa uno strumento, ma anche delle pratiche tra loro estremamente diversificate. Effimero e riproducibile per costituzione, il video rappresenta una sfida alle istituzioni dell’arte, poiché resiste alle catalogazioni degli storici, sfugge ai canoni mussali, si sottrae ai criteri di valutazione dei mercanti. Coloro che iniziano ad utilizzare il video sono dei pionieri che sfidano il monopolio degli apparati statali e commerciali sulla televisione e sovvertono i canoni relativi alla produzione artistica. Tuttavia solo alcune caratteristiche dei video sono prese, all’inizio, in considerazione nei circuiti dell’arte. Il video si è apparentato alle arti visuali, alla performance, alla danza, naturalmente al cinema, e a quello sperimentale con più diretta evidenza, prima che alla televisione. Le scelte museali a cavallo tra gli anni Sessanta Settanta, di fronte alla necessità di catalogare il video, privilegiano quei lavori in cui l’opera consiste nel mezzo stesso (secondo Marshall McLuan il mezzo è il messaggio), in cui l’obiettivo estetico è nel trattamento del segnale elettronico e nella sperimentazione sulla tecnologia, a scapito degli interventi basati sulle potenzialità di registrazione della realtà esterna, e perciò di documentazione e informazione, proprie del mezzo. La conseguenza diretta di questo atteggiamento è che i lavori video dotati di caratteristiche conformi a tali criteri vengono registrati, diventando l’oggetto delle analisi della storia dell’arte sul mezzo, mentre tutti gli altri aspetti messi in opera negli interventi video dei primi tempi sono confinati ai margini del processo di storicizzazione. Questo, forse, spiega la differenza di notorietà tra Cafè Gogo in Greenwich Villane, 152 Bleeker Street e Bum. Presumere che un mezzo artistico abbia delle proprietà specifiche significa ritenere che ogni forma d’arte sia distinta da tutte le altre e che possieda requisiti particolari, suoi in esclusiva. I meccanismi che regolano il senso e il significato di un’opera d’arte, però. Non sono isolabili unicamente al livello delle sue caratteristiche specifiche ed essenziali, ma sono inscritti nel complesso processo in cui le proprietà formali dell’opera interagiscono con il mondo, con il sociale, con ciò che costituisce il contesto dell’opera e in rapporto al quale l’opera è stata creata. I musei si aprono al video solo in seguito al suo avvenuto riconoscimento in quanto forma d’arte all’interno di numerose mostre nelle gallerie di New York; è soprattutto negli Stati Uniti che viene scritta la storia del video. In Europa vi sono due figure che pongono l’accento sul video e sono Gerry Schum in Germania e Luciano Giaccari in Italia. Gerry Schum appena viene messa in vendita l’apparecchiatura di videoregistrazione, apre a Dusseldorf una galleria dedicata unicamente all’arte realizzata con mezzi televisivi, la Video Gallery. Come gallerista, comprende subito l’importanza del video per creare delle opere anche in quelle situazioni in cui l’azione dell’artista di per sé non ne prevede, come nel caso delle performance di body art, degli happening, o della land art, e avvia pertanto una produzione “editoriale‿ di opere video. Nonostante l’interesse degli stessi artisti verso il nuovo mezzo, infatti, alla fine degli anni Sessanta il mondo artistico italiano ed europeo è complessivamente scettico, in attesa di conferme dagli Stati Uniti. A New York, invece, la scena underground e off è ricca di iniziative multimediali, ed è proprio grazie a questo “fermento tecnologico‿ generalizzato che si accende l’interesse del mondo istituzionale verso il video. Il nome del gallerista Howard Wise è divenuto leggendario per l’influenza esercitata nell’ambito artistico in favore del nuovo mezzo. Già nella seconda metà degli anni settanta, mentre nascono le prime videoteche e le prime sezione di musei dedicate all’arte video, si ha un calo di questa produzione, un progressivo abbandono da parte anche di artisti che hanno raggiunto risultati di rilievo in quest’area di ricerca. Dell’improvvisa fortuna e del rapido declino dell’arte video si può cercare una spiegazione. La manipolazione tecnica ed estetica di un nuovo strumento visivo di comunicazione è congeniale all’artista della nuova avanguardia che si è affermata negli anni sessanta. La poetica delle avanguardie richiede all’artista di intervenire in posizione di innovazione radicale. Il video fornisce almeno all’apparenza questa condizione. E’ strumento totalmente nuovo che si rivela di una potenzialità inesauribile. Quanto le modificazione di immagini risultino realmente innovative, congeniali alla specificità del nuovo mezzo, è oggi più semplice da osservare. La qualità tecnica di alcuni primi esperimenti sul video appare oggi difettosa. Il virtuosismo tecnico ingenuo e ridondante, la soggettività espressa, fuorviante. Bisogna in questo giudizio tener conto di come siano state accolte, si può dire indiscriminatamente, le nuove produzioni puntando sulle possibilità enormi di sperimentazioni del nuovo mezzo. Si è creato un circuito in cui, però, alla enorme produzione non ha corrisposto un adeguato sistema di diffusione e distribuzione. Le gallerie d’arte, solo raramente, si sono occupate della diffusione del video: giustamente più della loro produzione. I luoghi di presentazione della nuova produzione video sono venuti a costituire una rete non molto ampia, stabilita tra sezioni specializzate di alcuni grandi musei d’arte contemporanea, poche istituzioni destinate alla diffusione del video, alcune cooperative e gruppi di artisti, più numerosi e attivi negli Stati Uniti. Una dimensione affatto particolare per la diffusione dell’opera video sono risultati gli incontri internazionali che grandi esposizioni e rassegne hanno promosso. Questi eventi hanno rappresentato momenti essenziali del confronto tra esperienze diverse. In queste, un’enorme mole di video è stata presentata al pubblico come un carico difficilmente sostenibile anche per un’attenzione motivata.
Anni ‘80
Nella terza fase, gli anni ottanta, l’impulso della ricerca video come espansione dell’area della arti visuali registra il continuo decremento che aveva preso avvio nella metà degli anni settatta sotto la pressione del ritorno delle immagini materiali dell’espressionismo. Parve a molti che la ricerca sui media della nuova tecnica, così direttamente coinvolgente le immagini e il modo di produrre immagini delle arti visuali, fosse destinato a una definitiva eclisse; ma anche se c’è stata un’indubbia mutazione di atteggiamento e di aspettative, il confronto tra arte e tecnologia ha continuato ad essere vivo, l’assorbimento delle potenzialità dei nuovi strumenti tecnici da parte dell’arte, ancora più sottilmente modellato. La sperimentazione video infatti non si arresta, anzi, sembra liberata da una troppo stretta dipendenza a modelli e stereotipi esterni. Il nuovo contesto tecnologico lascia intravedere l'aprirsi di un periodo nuovo, nel quale le sperimentazioni sul trattamento delle immagini del biennio '60-'70 vengono largamente superate; il video, sganciato dall'essere un linguaggio autonomo, può essere utilizzato in maniera diversa ed inserito in complesse installazioni multimediali. Le sperimentazioni ed il rilancio della pratica video sono diffuse e presenti in molteplici forme: videopoema, videonarrazione, videopolitico, videodanza, video e musica, videoinstallazioni sono settori di sperimentazioni dove il video è rilanciato, divenendo supporto ideale e principale. Il video rappresenta il supporto ideale per visualizzare movimenti, insieme di idee e sensazioni, estensioni nel tempo di pratiche di arti plastiche. Il video degli anni ottanta guarda con curiosità, non più con avversione, alle peculiarità del mezzo elettronico rivelato della televisione, infatti nessun videoartista si è sentito più di dover dichiarare che lavora contro la televisione, più spesso ha tenuto a distinguere tra video e televisione, ma anche ad affermare che la televisione può essere una canale appropriato per la circolazione della ricerca video; la televisione viene vista come medium attraverso il quale una ricerca specifica può raggiungere un largo pubblico. I modelli della comunicazione televisiva sono in grado di esercitare una loro influenza che il videoartista è in grado di assumere, e governare, criticamente. I videoartisti degli anni ottanta sono al di là di ogni ottimismo tecnologico, non si interrogano più sulla portata del mezzo, ma cercano di utilizzarlo al meglio. Essi hanno una coscienza lucida della esilità delle risposte che il video può offrire alle richieste di una rappresentazione grandiosa; conoscono però anche la sottile forza penetrativa dell’immagine nel tempo che il video propone, un’immagine che forza strutturale, come un’architettura della visione.
Anni ‘90
Chi considera la videarte episodio concluso negli anni novanta, ed è tesi che i recuperi della pittura d’intonazione soggettivistica e neo-espressionista sembravano avvalorare, non teneva conto di un dato essenziale. Il video per gli artisti è stato, e lo era ancora per molti in quegli anni, strumento di ricerca più che codice di un nuovo genere o disciplina. L’utilizzazione che gli artisti fanno del video non rispetta la convenzione del video come mezzo di grande comunicazione; il video è nella ricerca degli artisti, piuttosto utensile efficace di una nuova definizione, spesso critica, del visibile che incorpora suono e tempo nel processo di ordinamento e analisi dell’immagine. La valutazione di un’estensione creativa dell’utilizzazione del medium televisivo in questo senso è rapportabile all’utilizzazione della fotografia e del cinema che è stata realizzata nelle arti visive di questo secolo dalla prima e dalla seconda avanguardia. La rete di istituzioni, sezioni di museo, centri di cooperazione artistica, istituti specializzati, si è in parte consolidato negli anni novanta. Essa però è interessata oggi più all’ordinamento dei materiali sin qui prodotti, che alla sollecitazione di nuove produzioni. Questa rete tuttavia esiste e si mantiene abbastanza stabile. E’ importante che il lavoro compiuto nel corso degli anni non venga disperso. Si tratta di un materiale fragile e precario nella sua consistenza d’immagine, in alcuni casi, ma che è testimonianza preziosa di tutto il clima artistico dei quindici anni dell’arte internazionale e avvio di un filone di ricerca che, nel clima freddo di questo momento, sembra diramare più saldamento le sue radici. Quello che però muta radicalmente, è il clima e la possibilità di udienza della ricerca video. Il pubblico della grande televisione a più di quarant’anni dalla sua configurazione “planetaria‿ merita una diversa attenzione. Non è vero che esso sia un pubblico assolutamente passivo, incapace di domande e reazioni soprattutto a livello di generazioni che più dovrebbero essere state più condizionate dall’essere cresciute nella cultura della televisione. Prospettive nuove del video sono state indubbiamente aperte dai videoclip musicali. I videoclip, nati per pubblicizzare canzone e cantante, sono un fenomeno nuovo che tende ad avere una propria autonomia nel campo estetico; la manipolazione delle immagini applicata alla tecnologia video insieme al frizzante linguaggio musicale giovanile rendono il videoclip uno strumento visivo di forte impatto, dove viene esaltato l'aspetto estetico e percettivo, lontano da quello che è il mondo etico dell'adulto. La necessità di fruire il videoclip in tempi brevi determina un tipo di linguaggio "veloce" ed accattivante, dove stili ed idee si mescolano. Inoltre, l'esigenza di persuasione della pubblicità determina da una parte l'impoverimento del linguaggio, che deve essere alla portata di tutti, e dall'altra utilizza strumenti complessi e raffinati per realizzare effetti speciali e riprese particolarmente spettacolari. Sicuramente quando negli anni settanta gli artisti video dichiararono di non avere nulla in comune con la grande televisione hanno commesso sicuramente un atto di orgoglio che gli sviluppi del video e della televisione per qualche verso hanno contraddetto. La stessa televisione consente di espandere le indagini acute svolte dai ricercatori video, le espansioni di un immaginario sostenuto da un apparato tecnologico complesso, ai circuiti della grande comunicazione. E’ probabile che il periodo che noi abbiamo vissuto non rappresenti che l’avvio di una nuova fase della comunicazione per immagini, primo momento di strutturazione di un linguaggio visivo aperto a specificazioni e a diffusioni ugualmente forti. Una prospettiva importante nel campo del video è una sempre maggiore riduzione di distanza tra la qualità fisica e ottica dell’immagine chimica, fotografica, cinematografica e l’immagine elettronica, televisiva e quindi una direzione verso risultati inediti sul piano estetico per quanto riguarda il video; in questo senso, con il passaggio al video digitale, negli ultimi anni si sono fatti passi da gigante.
Aree di sviluppo del video
Aree in cui si sviluppano maggiormente le attività produttive sono la Germania e gli Stati Uniti. In questi luoghi lo sviluppo e la ricerca sui nuovi media vengono appoggiati con notevoli sovvenzioni e programmate forme di insegnamento d'arte al video. Di qui la possibilità lavorativa continua nel tempo di numerosi artisti anche nei momenti in cui viene meno l'attenzione. Grazie a questi "videoartisti", di natura creativa diversa, ed all'analisi di linee di tendenza è possibile delineare mappe di personaggi e di scelte linguistiche, non dimenticando che il linguaggio video presenta spesso caratteri contradditori e vive costantemente ai confini dei linguaggi estetici. Il video tedesco è senza dubbio il più forte d’Europa; esso appare aperto a una prospettiva di crescita. Proprio sulla nascita della videoarte la cultura visuale tedesca vanta, con fondamento, il suo apporto decisivo, sia che si assuma come punto di avvio l’esposizione nella Galerie Parnass di Wuppertal del 1963 in cui Nam June Paik espone l’immagine televisiva manipolata, sia che si consideri nel 1965 la creazione sempre dello Paik del primo video d’artista. Nam June Paik ha a lungo lavorato a Dusseldorf e ha sentito profondamente l’influenza del movimento Fluxus. Il video è per Paik il mezzo espressivo più rispondente alla rivoluzione culturale libertaria di Fluxus, il movimento di avanguardia multimediale a cui partecipa dopo una formazione estetica avvenuta nell'estremo Oriente e nell'Occidente europeo. Nell'avanguardia di Fluxus, l'artista coreano non è esclusivamente un videoartista, bensì un artista "ipermediale" che adopera una molteplicità di comportamenti vitali e di tecniche artistiche. Anche Vostell fa parte dello stesso clima. La relazione tra ricerca video e movimento Fluxus è fondamentale: si tratta di stabilire infatti strategie nuove della comunicazione come campi e modelli di una nuova processualità artistica. Questi artefici cercavano l'interdisciplinarità totale dei mezzi da usare, e privilegiavano il processo creativo piuttosto che l'oggetto finale, e l'assoluta precarietà dell'opera. Ma più che opere vere e proprie gli artisti Fluxus preferivano dare vita ad "azioni" - che rifuggivano ogni dogmatismo, o l'adesione a un "bello" stereotipo - documentate da riprese in video, foto, dischi, partiture musicali, e documenti di vario genere. Quando nella seconda metà degli anni settanta la videoarte entra in crisi, il fenomeno, anche se di ampia portata pure in Germania, non tocca però il cuore della sperimentazione video tedesca. Ciò che caratterizza di queste produzioni tedesche è soprattutto il forte legame che esse conservano con il mondo delle arti visuali e la declinazione di una specifica grammatica del video. Pure il Giappone ha occupato un posto di rilievo nel campo delle ricerche video. Non a caso alcuni dei più rappresentativi protagonisti della sperimentazione video (il coreano Nam June Paik, lo statunitense Bill Viola) hanno potuto lavorare in Giappone disponendo di mezzi e di audience difficilmente raggiungibili in altri paesi. Esiste una tendenza a esplorare le possibilità del mezzo, la liquidità definita delle immagini che può raccogliersi in un’inedita dimensione temporale, viva negli anni settanta, e una tendenza, diversa a costruire una più chiara articolazione del rapporto suono-immagine, delle possibilità di una nuova narratività, o narratica, che non duplica quella vivacemente articolata del cinema, ma che pure muove un’analisi del tempo dell’immagine d’indubbio fascino.
Luoghi di fruizione del video
Attualmente le innovazioni tecnologiche stanno trasformando la videoarte: le videoproiezioni stanno assumendo proporzioni cinematografiche, la tecnologia digitale permette ai creatori di portare l'immaginario video su strade sempre più complesse e Internet fornisce agli artisti nuovi spazi e nuovo pubblico per il loro lavoro. Da parecchi anni ormai si assiste ad una fitta serie di mostre e rassegne internazionali di VideoArte organizzate da enti pubblici, gallerie, associazioni, teatri, scuole e singoli ricercatori all'insegna del mutamento in corso nel mondo dell'arte e della cultura "visuale" dei nostri tempi. Sia nel caso delle piccole iniziative di provincia che in quello dei grandi progetti ultrasponsorizzati, i nomi vanno da quelli più conosciuti, come Nam June Paik, Bill Viola, Gary Hill, Fabrizio Plessi, Brian Eno, Gianni Toti o Studio Azzurro, a nomi forse meno noti ma certamente altrettanto validi come quelli di John Sturgeon, John Maybury, Tracey Moffatt, Theo Eshetu, Antonio Porcelli, Haruo Higuma, Anders Elberling, Nelson Henricks, Yudi Sewraj, o GMM... In queste "mostre" le opere d'arte sono costruite utilizzando il linguaggio del video come denominatore comune e sono create da autori di varia provenienza artistica che usano appunto le immagini video e i monitor come mezzo specifico di espressione, sebbene in modi diversi e con diverse autonomie di linguaggio: c'è il videoteatro, la video-poesia, la computer-art, la video-performance, programmi per videoinstallazioni e videoambienti, nonché un nuovo modo di concepire l'informazione, la catalogazione e l'archiviazione che va sotto la denominazione di "nuova documentazione", sino alla creatività applicata alla realizzazione di siti elettronici da parte dei recenti web-designers. Rassegne del genere naturalmente se ne ritrovano sparse un po' dappertutto, sia in Italia che soprattutto all'estero, anche perché spesso si tratta di presentare materiali che circuitano proprio grazie a gallerie e collezioni private che fanno delle VideoArti il loro fiore all'occhiello e mettono i loro archivi a disposizione degli organizzatori, siano essi strutture pubbliche o associazioni culturali. Ad affrontare il discorso della videoarte si ritrovano spesso artisti giovani del mezzo elettronico ed altri già conosciuti che magari coltivano contemporaneamente altri settori del vasto mondo delle arti visuali: le rassegne sono spesso perciò un momento di confronto che serve ad evidenziare linee di demarcazione già esistenti, ma fondamentali per una conoscenza critica e di orientamento, sia per il pubblico degli addetti ai lavori che per chi vuole curiosare tra queste affascinanti "metamorfosi della visione" create dai ricercatori contemporanei. Il video, come qualsiasi altra arte prevalentemente visiva, ha davanti a sé il denominatore comune dell'immagine che tutti credono di tenere fermamente in pugno mentre essa è contemporaneamente in molti luoghi, sempre contaminata ed interagente in un costante rapporto di spazio-tempo-luce. Le videoarti danno spesso la sensazione che le immagini, anche quando sono esattamente riprodotte dalle macchine elettroniche (dai monitor), talvolta si nascondano all'interpretazione, diventino ambigue e sfuggenti, sia quando sono lente e al ralentì che quando sono talmente veloci che un attimo dopo sono già andate molto lontano. Questo perché la tecnologia elettronica è ormai presente quotidianamente, direttamente o indirettamente, nella nostra vita come nell'espressione creativa: il problema dell'arte, semmai, è costituito proprio dalla sua forza poetica che non può essere solo spettacolarità estetica, ma anche contenitore di elementi della memoria collettiva, poetica utopia che si concretizza nell'opera. La civiltà del network informatico, dell'interattività e della comunicazione via satellite segna il passaggio epocale dell'era elettronica. Trent'anni dopo l'inizio delle prime esperienze di videoarte si registra un totale capovolgimento di obiettivi, metodi, valori nel rapporto tra arte e tecnologia, che dall'era televisiva approda a quella telematica. Ma le videoarti, almeno da quanto si può constatare nelle diverse iniziative degli ultimi anni, sono provviste di un grande senso di libertà, possono effettivamente ricominciare sempre da zero. Le scelte degli operatori, fin qui registrate, rispondono all'esigenza di offrire una panoramica, sia pur sintetica, delle ricerche attuali accomunate dalla "interazione" tra arti visive ed elettronica (analogica e digitale), con sconfinamenti nella sperimentazione multimediale, tra scultura, architettura, cinema, teatro, fotografia e musica. Ma, ancora ai nostri giorni, l'arte elettronica per le sue specifiche caratteristiche tende a sfuggire dai canali tradizionali di fruizione. Richiede un genere di esposizione e un tipo di musealizzazione diversi e specifici; non ha un mercato e un collezionismo paragonabile a quello dei quadri e delle sculture; è "riproducibile", anzi replicabile, in modi paragonabili forse a quelli della musica o del cinema, avendo nella sua struttura genetica una imprescindibile dimensione temporale. Il video presenta anche problemi di conservazione, sia per la deperibilità dei suoi supporti magnetici, sia per la rapida obsolescenza degli strumenti, il cui continuo perfezionamento e rinnovamento sul mercato rende problematica la visione delle opere più antiche, intrise ormai comunque di un sapore primitivo, quasi commovente per l'arcaismo degli effetti legati ad una tecnologia in costante trasformazione. Anche se esiste da più di quarant'anni, insomma, è come se la videoarte dovesse fare la sua prima comparsa nella sala-parto dell'arte. Il bambino che nascerà si può però dire che sia sempre esistito perché il linguaggio video (e le video-installazioni) si pongono spesso come antitesi, provocazione, per innescare un contraddittorio nella dialettica tra vecchio e nuovo: linguaggi, modi di operare, supporti, strumenti. Dal super-8 all'animazione, dall'approccio "povero" alle elaborazioni digitali più sofisticate, nelle sue molteplici possibilità espressive il video si conferma anche in Italia come uno dei mezzi più flessibili e adatti a dar voce e a rendere visibile la complessità del contemporaneo. Nel senso che oggi è abbondantemente scaduto un ordine fondato sulla logica dei "limiti" e si è aperto un immaginario della "mancanza della fine": non si dicono più solo cose diverse nella stessa lingua, ma finalmente si parlano linguaggi in continua mutazione.
Generi della Videoarte
La presenza dei linguaggi elettronici, l'allargarsi delle influenze delle trasmissioni televisive, le nuove applicazioni del computer nel campo dell'immagine hanno provocato un sostanzioso salto di qualità. La molteplicità dei linguaggi autonomi dell'arte ed eterogenei dei media non fanno che ridefinire continuamente i confini fra le culture artistiche. La videoarte è nata proprio dalla presenza di linguaggi elettronici; oggi giorno invece è più facile che si sviluppi su supporti digitali. Dal termine videoarte si è spesso lamentata la genericità e l’equivocità che ne può derivare. Esso infatti viene usato per indicare svariati campi dell’arte correlati al video in un modo o nell’altro: la produzione originale di opere appositamente concepite per il mezzo video; la registrazione, spesso in tempo reale, di azioni, performance ed eventi; la dislocazione in uno stesso spazio ambientale di diverse strutture video (videosculture e videoenvironments); la combinazione intermediale di dispositivi eterogenei – diapositive, film, immagini plastiche, oggetti – (installazioni); e ancora la coniugazione multimediale di produzioni o riprese televisive con altre tecniche e linguaggi (performance, teatro, danza). E’ stato spesso proposto di riservare il termine videoarte unicamente alla produzione videografica. Tuttavia tale termine, nel corso degli anni, è stato portato ad assumere un significato sempre meno specifico e allo stesso tempo più complesso. Il termine videoarte designa oggi tutte le utilizzazioni, interne alla produzione artistica, del mezzo video Le creazioni di immagini inedite, e in molti casi grazie agli usi dei sintetizzatori senza una referenza esterna, costituisce l’altro versante intensamente creativo della videoarte. Ma le operazioni più recenti della videoarte coinvolgono il contatto con gli altri media oltre alla dislocazione spaziale di diverse sorgenti di immagini video, situazione che ha stimolato la ricerca sin dagli inizi. Nel classificare i generi della videoarte, si può considerano le modalità con cui la dimensione temporale influenza la rappresentazione figurale dello spazio; appare chiaro che lo strumento “video‿ si presenta con le caratteristiche sue proprie che ne determinano tecniche e linguaggio. La videoarte non opera né con la dimensione del tempo nel suo complesso, come la pittura, né fissando un momento preciso come avviene per la fotografia, e neppure con la scomposizione del tempo in un’unità sequenziali significative, come avviene in un film. Il video lavora con il tempo reale, che scorre con andamento continuo, un tempo che non si rispecchia solamente nella struttura spaziale, ma anche nella durata. Se si pensa che, dall’avvio di questo secolo, cominciato con l’avanguardia cubista e futurista e proseguito fino ai più recenti esperimenti di “performance‿, si è tentato nella ricerca di nuove forme visive di comprendere la dimensione temporale come elemento di un possibile ampliamento della rappresentazione dello spazio, si può capire il motivo dell’entusiasmo con cui gli artisti di tutto il mondo alla fine degli anni sessanta hanno rivolto la loro attenzione alle nuove tecnologie elettroniche. La presentazione del tempo nel suo decorso reale, senza circoscriverlo nel canone chiuso del tempo di rappresentazione, mira però più in là, verso una nuova consapevolezza, una nuova percezione, una nuova valutazione dello spazio. (Si è sviluppata così, ben presto, la forma più conseguente ed estesa di videoarte: la videoinstallazione e la videoscultura.). Nel corso del tempo, con lo sviluppo di questa nuova arte, si è potuti giungere ad una classificazione dei singoli aspetti della videoarte.
Le origini del video
Introduzione
Con il termine video si indica un dispositivo elettronico che permette la cattura e la visualizzazione immediata delle immagini in movimento tratte dal reale. Molto prima della comparsa del video, è l’invenzione della fotografia a dare l’avvio ad un processo di crescente assimilazione della visione da parte della tecnologia, lo stesso processo che in seguito ha prodotto anche il cinema e la televisione. Con la fotografia la percezione visiva è diventata una possibilità della macchina: questo ha cambiato il mondo e la comprensione umana dello stesso. Tutto questo ha portato ad una vertiginosa espansione del campo del visibile, amplificando la portata dell’esperienza visiva dell’uomo. Cinema, fotografia, televisione disegnano il vissuto quotidiano, i mezzi elettronici offrono la possibilità di accrescere la capacità individuale di collezionare e, contemporaneamente, produrre parole e immagini, mentre le tecnologie della visione svelano all’analisi e alla manipolazione elettronica nuove dimensioni del mondo, un tempo segrete ed inaccessibili all’occhio umano. L’immagine però tende ad una non naturalità della visione: le nuove tecnologie hanno infatti sempre più sconvolto la relazione tra realtà e immagini mettendo in crisi il concetto stesso di immagine come rappresentazione. Si può infatti pensare ad una foto scattata alla terra da un satellite: quella che ci viene presentata è una rappresentazione, una realtà virtuale, in cui il reale è messo in posa per offrire uno spettacolo di sé all’altezza di esigenze e aspettative politiche, economiche, culturali, sociali. Comunque, nella nostra cultura, l’immagine è sempre meno pensata come una rappresentazione, cioè una produzione dell’uomo, poiché viene sempre più comparata alla realtà oggettiva. In virtù delle macchine visive, in grado di vedere indipendentemente dall’occhio umano, la visione maturale si è trasformata in una questione sempre più tecnologica. Il punto di vista umano non è più rilevante e tantomeno necessario. Riprendendo l’esempio sopra della foto scattata dal satellite; l’immagine è scattata da un occhio elettronico ma tale immagine è nondimeno accreditata come vera! Lo sguardo della macchina è considerato super partes e non viene mai messo in dubbio. Grazie all’incontro tra immagine e tecnologia è nata una nuova categoria, quella del visivo. Prima della fotografia l’immagine della realtà era necessariamente pittorica, dopo il 1839 l’immagine della realtà diviene un artefatto prodotto dalla visione e dall’abilità tecnologica della macchina. Il visivo nasce nella prima metà del 1800 come un problema estetico e scientifico (basti pensare a cosa dice Benjamin nei riguardi dell’occhio incosciente della macchina rispetto a quello consapevole dell’uomo). L’artista, per mestiere, si misura quotidianamente con la complessità del visivo; prima dell’invenzione delle macchine di riproduzione del visibile, il mondo che trovava forma nell’opera d’arte era strutturato secondo un regime visivo in cui era la visione dell’uomo a detenere un incontrastato monopolio sul reale; questo significava sottostare anche a dogmi religiosi, scientifici, proporzioni ecc.. La storia delle censure rappresenta l’esistenza di un ordine visivo ben preciso; un ordine visivo accettato quasi in modo inconsapevole che regola la comprensione del mondo da parte degli individui. L’arte elettronica inaugurata dal video è una preziosa fonte da cui attingere per adattarsi positivamente ad un mondo in cui le tecnologie elettroniche fanno da padrone. Il video si presta a molteplici utilizzi: Mentre a livello commerciale il video è sfruttato come veicolo per la pubblicità e per la diffusione in cassetta di opere cinematografiche, a livello amatoriale può essere utilizzato come espressione artistica, di comunicazione politica, oppure per archiviare, nel privato, immagini-ricordo. L’utilizzo amatoriale del video può essere visto come una forma di intervento pubblico, nel caso di video d’arte o politico, o come una modalità strettamente privata di memorizzazione di eventi personali. Gli artisti negli anni sessanta e settanta si sono rivolti al nuovo strumento, il portapack, appena apparso sulla scena, e sono riusciti a stravolgerne le funzioni: hanno dimostrato che nelle mani di consumatori avveduti il video può diventare un potente mezzo di comunicazione pubblica. Il video è un mezzo linguistico particolare; è importante ricordare che il video è stato inventato da una società che equipara il reale al visibile ed analizzare tale strumento ci fa capire non solo la nostra percezione della realtà ma anche il nostro modo di utilizzare il linguaggio.
Le radici del visivo
Analizzando profondamente la visione si può scoprire un nesso che la collega al pensiero ed al linguaggio. L’immagine, infatti, è condizionata profondamente dalla parola, al punto che il grado di realtà di ciò che si vede è strettamente correlato alla possibilità di una sua descrizione verbale: per identificare quello che vediamo si deve poter dire ciò che si guarda. Questo non avviene con le immagini video astratte. Molti video sperimentali degli anni settanta utilizzavano i sintetizzatori video (apparecchio che consente di modificare o generare istantaneamente forme, colori e suoni a partire dalle componenti elettroniche del segnale televisivo), dopo la visione di essi gli spettatori avevano come sensazione dominante quella della mancanza, mancanza delle parole necessarie per inquadrare l’esperienza (le pulsazioni emesse dallo schermo generano un universo cinetico multidimensionale che cattura il corpo dello spettatore, più che la sua mente, facendogli provare intense sensazioni fisiche, in alcuni case persino spiacevoli e incontrollabili, ma comunque impossibili da descrivere). L’immagine senza la parola è un testo illeggibile.
Occhio e Cervello
I processi visivi sono molto complessi già a carattere percettivo; la realtà è percepita attraverso le informazioni trasmesse dagli organi di senso, ma tali informazione impongono una valutazione in cui intervengono inevitabilmente delle componenti soggettive (Woody Vasulka: il cinema e la televisione hanno contribuito a rafforzare la tradizione che ha modellato la percezione visiva dell’uomo. Una tradizione che concepisce la realtà esterna all’uomo come “oggettiva‿ e la sua rappresentazione come una riproduzione il più possibile fedele. Non si tiene conto del fatto che la realtà è vista attraverso gli occhi e che essa, perciò, dipende integralmente dalla percezione degli individui e dal modo in cui le immagini di formano dentro l’occhio). L’immagine elettronica costringe il telespettatore a conformarsi a percezioni visive non previste, alludendo contemporaneamente a una logica della rappresentazione in cui l’informazione non proviene soltanto dalla dimensione iconica ma anche dall’attività elettronica stessa attraverso cui si forma l’immagine. Da un punto di vista fisiologico esistono diverse analogie tra i processi visivi e la formazione elettronica delle immagini: da un lato l’informazione visiva si forma nel cervello a partire da scariche elettriche provocate dai cambiamenti di luminosità dell’ambiente circostante, dall’altro l’immagine video è prodotta dal movimento incessante e velocissimo degli elettroni sulle particelle di fosforo che rivestono la parete interna dello schermo televisivo. Detto questo si può affermare che l’immagine video può essere descritta come un’approssimazione dell’attività neuronica intenta a percepire, cioè a costruire rappresentazioni. C’è da aggiungere che la percezione nel suo complesso dipende da determinate assunzioni nei confronti del mondo, il cui ruolo è estremamente importante per la specificazione complessiva delle esperienze. Infatti se prendiamo in esame la visione umana: se gli oggetti che entrano nel campo visivo non sono familiari e riconoscibili a prima vista, si verificano dei problemi nella valutazione delle informazioni ottiche, poiché il confronto con casi analoghi induce in errore. Il fatto è che la visione procede in modo piuttosto approssimativo e cade spesso in errore. Le aspettative e le assunzioni rispetto alla realtà esterna determinano completamente quello che si vede e come lo si vede. La realtà esterna quindi più che un dato oggettivo, appare piuttosto come una costruzione mentale. Ed in definitiva dai processi visivi è come se scaturisse un campo di simmetrie, analogie, contrapposizioni, grazie al quale le immagini producono parole e le parole regalano realtà alle immagini. Qualsiasi immagine, allora, deve essere considerata come un’interpretazione sia dell’oggetto che viene visto sia della natura dell’esperienza di vedere immagini, poiché ciò che si vede è il risultato di un processo di costruzione in cui occhio e cervello decidono in anticipo, e a un livello fondamentale, riguardo ad alcuni aspetti di ciò cu cui si posa lo sguardo.
La visione della macchina
Il problema dell’interpretazione della realtà visiva acquista una nuova dimensione con l’entrata in scena delle “macchine ottiche‿. Sono dispositivi in grado di vedere indipendentemente dall’occhio umano e proprio per questa loro capacità gli si attribuisce una rappresentazione oggettiva della realtà. Bisogna dire che le tecnologie di riproduzione del visibile, sono la messa in opera di idee e giudizi sul mondo: Innanzi tutto, nella cultura occidentale vedere è credere e questo ha creato una sorta di ossessione per la riproduzione del visibile, culminata tra il 1800 ed il 1900 con la nascita della fotografia, cinema e televisione. Questi strumenti capaci di dare una realtà che si presenta come legittima e vera proprio in virtù dell’intervento della macchina. Il mondo rivive nel suo doppio tecnologico, ma solo come un’immagine, ma è comunque anche se sonora ed in movimento, un’immagine, una trasposizione. Le tecnologie visive, infatti, non restituiscono la realtà nella sua immediata rozzezza, ma la ricreano ex novo mettendola letteralmente in scena. Ciò che di vede davvero, così, è solo uno spettacolo, lo spettacolo del mondo. Spesso comunque ci si dimentica di fronte ad una foto di essere in presenza di una rappresentazione. Una rappresentazione e quindi un mondo ricreato secondo un ordine interno ideale che non pertiene alla realtà stessa, ma alla rappresentazione, cioè a colui che rappresenta (insieme di convenzioni anche relative al mezzo utilizzato).
Il mondo messo in prospettiva
Una delle principali convenzioni su cui si basa la rappresentazione della realtà, in Occidente, è quella della prospettiva. La prospettiva nasce con Brunelleschi e Leon Battista Alberti (che scrive il De Pictura). In pratica è un sistema per riprodurre nel dettaglio la realtà, con la sua tridimensionalità, su una superficie bidimensionale. Tale invenzione sfora anche dall’ambito artistico in quanto è un’entità puramente matematica. Il soggetto che guarda è in una posizione di dominio, dal suo punto di vista la totalità del reale si offre tutta insieme nello stesso momento. Un dominio non solo simbolico, l’ambiente diviene l’oggetto della sua azione e non soltanto il luogo entro cui l’uomo si muove. Un mondo ordinato e diretto da una ragione finalmente sovrana. La questione è interessante anche sotto il profilo storico: Siamo nel quattrocento, agli albori di quel movimento politico ed economico che condusse gradualmente l’Europa alla conquista del mondo. Nel 1445 Nasce la stampa con Gutenderg, nel 1492 Colombo approda in America e nel 1543 ci sarà la rivoluzione copernicana. E’ da evidenziare come l’applicazione tecnica del principio della prospettiva e la volontà di dominio sul mondo hanno percorsi paralleli che culminano nel 1900 con le invenzioni della fotografia e del cinema da un lato e la massima espansione del colonialismo dall’altro, anche il mondo della comunicazione subisce radicali trasformazioni. Sempre nel 1800 quando comincia l’assimilazione della visione nella tecnologia, l’informazione diventa un diritto e un’esigenza dei cittadini: 1815- ferrovia inglese, 1937- telegrafo, antenato dei media a trasmissione elettronica del nostro secolo, nascono anche le prime agenzie di stampa. L’emergere delle tecnologie su cui si basano i nuovi media della comunicazione sono una derivazione dei profondi cambiamenti sociali del 1800 (rivoluzione industriale in primis). Esiste una stretta relazione tra la riproduzione meccanica di immagini e la standardizzazione che parallelamente avviene in campo industriale. Dopo la rivoluzione industriale con la sempre maggiore espansione geografica cambia il processo della comunicazione sociale. Si ha un’appropriazione del mondo attraverso la riproduzione visiva, mentre cresce l’esigenza di un’informazione e di un intrattenimento adeguati al nuovo tipo di problematiche sociali e relazioni umane che si stanno sperimentando. In questo contesto, la fotografia, sia per uso personale che pubblico, si presenta come garanzia, da un lato, di una continuità relazionale oltre le distanze, dall’altro come la testimonianza della solidità del mondo e dei suoi valori, nonostante il nuovo stile di vita frenetico. Lo sviluppo dei media in pratica è legato all’interesse della produzione industriale che si sposta verso i cittadini. Nasce il Tempo libero, il cinema, il turismo e la fotografia trova nuovi spazi di applicazione. Nasce un Mercato di Massa. La prospettiva ha la funzione di trasformare la realtà in immagine. Nel modello bidimensionale le anomalie dello spazio reale vengono rivedute e corrette e la realtà è restituita in formato cartolina. Una cartolina non a caso, di solito le cartoline sono più belle che la realtà. Però d’altro canto la fotografia non è soltanto un’immagine, un’interpretazione del reale; è anche un’impronta, una cosa riprodotta dal reale e quindi che ha potere di rievocazione. Tuttavia è proprio perché sembrano confermare la realtà morfologica delle cose che passa in secondo piano il fatto che sono solo rappresentazioni e mettono in pratica un sistema visivo che corregge le proporzioni ed i rapporti interni allo spazio reale. La prospettiva deforma la normale forma delle cose, come se la realtà venisse in qualche modo regolarizzata, appiattita in uno sguardo monoculare. La tecnologia delle macchine funziona perché è in grado di rendere la realtà adatta alla sua rappresentazione. Le foto, i filmati si presentano come registrazioni oggettive, documenti che fanno vedere proprio tutto quello che era possibile vedere in un luogo in un dato momento. Ciò che una foto o un film riesce a far vedere è però qualcosa di determinato a priori in base alla tecnologia che utilizza ed al lavoro di cui è espressione. L’obiettivo della macchina non è uno strumento di per sé oggettivo e neutrale, ma è un artefatto umano concepito e costruito per permettere la trascrizione del reale come un’immagine accettabile. Per fare una bella foto non basta scattare, bisogna conoscere la tecnica della fotografia; l’errore che si compie solitamente è quello di considerare ingenuamente l’obiettivo della macchina fotografica come un occhio, l’occhio di un’altra persona. L’incontestabilità della prospettiva lineare nasce dal successo che ha avuto la camera oscura; ma la prospettiva non è altro che un costrutto in grado di soddisfare la necessità umana di trovare ordine e coerenza nel mondo (la prospettiva incorpora il desiderio degli uomini di vedere il mondo proprio in quel modo). Le immagini prodotte dalle tecnologie della visualizzazione sono entrate nella consuetudine visiva degli individui. Ma tutto questo è un’illusione di realtà, un’illusione talmente riuscita da far apparire del tutto naturale il fatto di vedere il mondo come lo vede la macchina fotografica o la cinepresa, o la telecamera. L’occhio umano cede il posto all’occhio meccanico; da una parte è un trionfo perché riesce a vedere cose che normalmente non avrebbe visto ma dall’altro si rende succube della tecnologia. Con la sua entrata in scena la fotografia e successivamente gli altri mezzi di riproduzione del reale, si afferma come unico garante della normalità visiva. Si hanno nuovi sviluppi: le ricerche degli artisti in merito alla percezione visiva conducono a rivoluzioni estetiche da cui nascono movimenti pittorici come l’impressionismo o il divisionismo, mentre si afferma la moda dell’esotico e del primitivo, alla ricerca di spazi (visivi) non ancora contaminati dalla civiltà. L’atteggiamento iniziale della pittura, nei confronti della fotografia, si caratterizza come un tentativo di dischiudere al visibile un livello di esperienze che il nuovo mezzo non aveva la possibilità di fare proprie. Supportata dal modello scientifico delle nuove teorie sulla luce e sul colore, la pittura si distanzia orgogliosamente da fotografia e cinema, cercando anche, contemporaneamente, di invaderne il campo. Il mondo è catturato entro rappresentazione in cui l’obiettivo è di dare voce alla sensazione delle cose per sviluppare un’analogia mentale con il mondo esterno che possa superare l’analogia reale messa in pratica dalle nuove tecnologie. In poche parole la pittura di fronte alla fotografia, comincia a mettere in dubbio la stessa realtà e così facendo favorisce l’assimilazione di fotografia, cinema, tv alla realtà stessa in quanto forme di riproduzione oggettiva del mondo. La fotografia si impadronisce prima dell’illustrazione poi della ritrattistica, successivamente nasce il reportage ed infine la pubblicità. Le foto diventano le uniche immagini vere della realtà. Di lì a poco fa la comparsa il cinema che con i suoi primi film ristabilisce la linearità narrativa rotta dalle rappresentazioni teatrali dei futuristi e di dada (da questi due filoni nascerà però il cinema sperimentale). L’avvento della televisione ha determinato un ulteriore sviluppo nella riproduzione del visibile. Nella sua versione pubblica ripropone i canoni rappresentativi del cinema, è dalla sua costola che nasce il video, vera e propria cartina tornasole attraverso cui è possibile leggere e analizzare la scolta visiva del 1900. Con l’immagine elettronica la prospettiva da lineare, statica e monoculare diviene curva, dinamica e multidimensionale. L’’immagine elettronica conserva tutta la sua letteralità rispetto al modello reale, ma al contempo, per tramite della tecnologia video, le aberrazioni cubiste e le incongruenze surrealiste sono rese normalità della rappresentazione mentre la manipolazione del segnale elettronico è in grado di suscitare un universo di sollecitazioni sensoriali: si potrebbe quasi dire che il video ha assunto nella stessa tecnologia l’intera storia dell’arte moderna, dal divisionismo al cubismo, al futurismo, fino al cinema sperimentale, alla body arte, al concettuale. Il fatto nuovo del video, è il particolare rapporto con il tempo che struttura dall’interno questa tecnologia. Già con il cinema l’immagine si era trasformata da medium dello spazio a medium del tempo, ma solo nel video la temporalità dell’immagine scorre parallela a quella della vita (con la tele-visione è nato il tempo reale). I nuovi media rimettono in gioco la prospettiva quattrocentesca dal suo interno. Attraverso la fotografia, il cinema e la televisione, la capacità visiva dell’uomo è notevolmente accresciuta. Ponendo in crisi i concetti tradizionali legati alla rappresentazione, cambia il rapporto tra l’immagine e la realtà. Alla logica della riproduzione verosimile e soggettiva si sostituisce quella della finzione verosimile e oggettiva. La prospettiva tecnologica porta alla creazione di un nuovo tipo di illusione, basata su una complessa frammentazione dello spazio e non sull’ordine proporzionato e armonico del suo insieme.
Il dispositivo video
La visione a distanza messa in pratica dalla televisione si basa su una trasmissione di impulsi elettrici da un luogo ad un altro e i suoi principi teorici sono gli stessi che hanno reso possibile l’invenzione del telegrafo, apparso già nel 1837 (inventato da Samuel Morse). Ciononostante i fondamenti tecnologici della televisione vengono fissati in via definitiva solo alla fine degli anni trenta del novecento. Questo è dovuto, alle difficoltà tecniche ma in primo luogo al fatto che nell’ottocento mancava lo spazio economico adatto allo sfruttamento di uno strumento per l’audiovisione a distanza. L’oggetto televisione era un oggetto difficilmente catalogabile come bene di consumo in un’epoca dove lo stesso concetto di consumatore non è ben definito. E’ la diffusione della radio ad aprire la strada allo sviluppo della televisione. La radio, inventata da Guglielmo Marconi nel 1896, si sviluppa dopo la prima guerra mondiale velocemente nella forma di servizio per il consumo domestico, in grado di proporre informazione, intrattenimento e rivolto a tutti. Nel suo sviluppo la radio dimostra di essere un veicolo interessante per l’apparato industriale e per quello politico. E’ in questo periodo che si forma la figura del consumatore da una parte e dall’altra si ha l’allargamento del suffragio universale; la radio diviene un mezzo di comunicazione di massa adatto alla pubblicità ed alla propaganda politica. In primo luogo la radio viene organizzata come broadcast, cioè come trasmissione ad ampio raggio di comunicazioni a disposizione di tutti a partire da una singola emittente (come il telegrafo ha la possibilità del messaggio di ritorno (wireless) ma questa facoltà è stata tolta quando si è optato di renderlo un mezzo di comunicazione di massa / Questa esigenza nasce negli anni trenta, in seguito agli eventi bellici per ragioni economiche e politiche). La radio per attirare a sé l’attenzione di un sempre maggior numero di persone si getta anche verso eventi di interesse generale 1910 trasmette un’opera, 1912 con la lettura dei superstiti del titanic, 1920 trasmissione di un incontro di pugilato. La strategia funziona. Il livello della cultura media cresce, il diritto di voto si allarga, i poteri forti per mantenere la loro posizione di forza, di controllo sull’informazione utilizzano il mezzo per fare propaganda, e l’utilizzo del broadcast non è casuale, oltre a permettere una commercializzazione su larga scala permette il controllo e la gestione dei messaggi trasmessi. La televisione arriva in questo momento, l’industria organizza la radio verso il broadcast e gli stati per ragioni politiche nazionalizzano o pongono sotto diretto controllo le radio. Il broadcast radiofonico viene preso come modello per lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e quindi della televisione. Anche la televisione come la radio permetterebbe il ritorno ma questa potenzialità non è considerata economica. Questa asimmetria è una caratteristica normativa del mezzo e costituisce anche lo sfondo invisibile e pervadevo da cui scaturisce il lavoro degli artisti con il video. In televisione la comunicazione è pensata a senso unico e questo influisce anche sugli utilizzi e le sperimentazione degli artisti. Per capire la portata delle loro azioni e come le potenzialità ancora inutilizzate del dispositivo siano giocato in campo artistico è necessario analizzare il mezzo televisivo a partire dal suo funzionamento tecnico. I segnali televisivi sono costituiti da onde elettromagnetiche e le loro modificazioni, come la luminosità dell’immagine o il sonoro, sono provocate dai cambiamenti della tensione, che varia continuamente. I segnali sono trasportati sequenzialmente, cioè uno dopo l’altro, e l’immagine televisiva è prodotta per mezzo di variazioni d’ampiezza e di frequenza, soggette a distorsione. La luce elettronica della televisione è una luce di particolare qualità: è in vibrazione costante e risulta prodotta dallo choc causato dal fascio di elettroni sulle particelle di fosforo che rivestono la parete interna dello schermo, che viene spennellata in continuazione e ad altissima velocità. Per poter essere trasmessa a distanza, l’immagine viene suddivisa in aree elementari, ognuna con una luminosità differente. In questo modo, essa risulta formata da un insieme di punti più o meno luminosi. Se il numero delle aree è sufficientemente elevato, lo spettatore posto a una certa distanza dal quadro non si accorge del fatto che, contestualmente alla sua visione, l’immagine viene ricostruita entro una griglia di punti luminosi al ritmo di venticinque immagini al secondo circa. L’immagine televisiva, perciò, è qualcosa che continuamente si crea e si distrugge, per poi rigenerarsi e ridistruggersi in un tempo infinitesimale di frazioni di secondo. E’ solo grazie al potere separatore dell’occhio umano, basato sulla “persistenza retinica‿ che le immagini trasmesse dal dispositivo risultano visibili per il telespettatore. Sullo schermo in realtà vi è solo un movimento incessante e fluido di microscopici fasci di luce. Le singole aree luminose sono trasmesse in ordine temporale che permette di impiegare una sola linea di collegamento (una sola onda radio), poi l’immagine viene ricomposta tramite la scansione. La definizione dell’immagine video risulta dalla traduzione delle variazioni luminose, corrispondenti alla percezione visiva di un oggetto, in variazioni di elettriche. Questa trascrizione viene compiuta all’interno del tubo analizzatore della telecamera, in cui il fascio di elettroni esplora linea per linea, e punto per punto, una placca fotoelettrica sensibilizzata, su cui si forma l’immagine. Più numerosi saranno i punti, cioè saranno più frequenti le variazione del segnale video, migliore sarà la definizione dell’immagine( per i dispositivi a colori oltre alla luminosità è necessario definire anche il colore di ciascun punto dell’immagine. I colori sono ottenuti con il metodo rgb ed all’interno del tubo catodico, tutte le gradazioni del colore sono ottenute per sovrimpressione). Da noi lo standard è il Pal a 625 linee per venticinque quadri al secondo. Comunque l’evoluzione tecnica del mezzo è continua. Sono gli artisti che sperimentano le nuove tecnologie prima ancora del loro lancio effettivo sul mercato, come dimostra la videoarte. Nam June Paik dice che il lavoro dell’artista consiste nell’umanizzare la tecnologia; cioè nell’indicare i possibili usi di nuovi strumenti non ancora ben compresi in tutte le loro potenzialità. Adesso sul mercato vi sono soltanto apparecchi abilitati alla ricezione dei segnali, il che elimina all’origine la possibilità di trasmettere in proprio e autonomamente messaggi televisivi. Tuttavia questa non è un’impossibilità tecnica, è una precisa scelta politica ed economica. Con alcune valvole in più avremo un vero dispositivo di comunicazione di massa. La situazione comunque cambia quando vengono messi in commercio i primi sistemi di videoregistrazione amatoriale, come il famoso portapak della sony, di cui si impadroniscono subito gli artisti. Da questo momento la registrazione si trasforma in un gioco alla portata di tutti, dando il via al lavoro degli artisti con il mezzo video. Con la videoregistrazione le cose cambiano perché si può registrare immagini proprie e quindi creare con una telecamera, un videoregistratore ed una televisione, una stazione televisiva in miniatura; come evidenziano gli utilizzi del circuito chiuso nelle installazioni degli artisti e nella videosorveglianza.
Alta/bassa definizione
Il videoregistratore permette di registrare suoni e immagini su un nastro magnetico, sincronizzandoli automaticamente. La registrazione è il risultato di due momenti, l’avanzamento del nastro e la rotazione delle testine video. I vari video si differenziano per il numero di testine, per il percorso del nastro all’interno e per la velocità di scorrimento. Sono le testine che trasformano il messaggio elettrico in campo magnetico e viceversa. Più testine migliore qualità. Vi sono vari sistemi di videoregistrazione, U-Matic, Betacam, Betamax, VHS. Nel montaggio analogico c’è una notevole differenza tra le apparecchiature amatoriali e professionali. Per esempio le immagini del VHS sono a bassa definizione quindi non adatte alla trasmissione broadcast della televisione, non raggiungono gli standard. Tali standard sono definiti da norme internazionali, regolando in questo modo l’accesso all’etere. La questione comunque è più complessa e riguarda l’utilizzo sociale della televisione. Su un piano puramente estetico discriminare tra bassa e alta definizione non ha senso. La tendenza del mercato amatoriale va verso una sempre maggiore qualità vedi il digitale; ciò determinerà una sempre maggiore produzione di immagini video amatoriali con una buona risoluzione, anche se gli sbarramenti tecnologici e legali alla libertà di trasmissione continueranno a sussistere. Sembra un problema esclusivamente tecnico ma in realtà dietro c’è la volontà di portare il segnale broadcast ad un ideale implicito ben preciso di rappresentazione della realtà. L’obiettivo è raggiungere l’immagine fotografica. E’ infatti grazie al nitore, alla definizione che la fotografia ha dimostrato l’esistenza e la solidità del reale. Comunque analizzando la realtà scopriamo che essa stessa non possiede la definizione che appartiene alla fotografia. Quindi la definizione serve per rappresentare la realtà in un dato modo. Quindi il discorso tra bassa ed alta definizione si spiega guardando l’obiettivo; si vuole giungere ad una immagine della realtà rielaborata, pura, nonostante il mondo sia materiale grezzo, ed in quest’ottica la bassa risoluzione è per forza fatta fuori. Comunque da un altro lato si vede come le immagini a bassa risoluzione funzionino per l’home-video. In analisi definitiva si può dire che le differenze tra bassa ed alta definizione si spiegano solo attraverso una scelta economica di mercato. Una caratteristica che differenzia la tv dagli altri media è la possibilità della riproduzione in diretta della realtà. Può far questo perché è riuscita a svolgere contemporaneamente la funzione della ripresa e del montaggio e questo permette di cogliere il movimento del tempo nell’attimo irripetibile del suo sorgere. L’immagine video è un’immagine elettronica, composta sullo schermo dall’analisi rapidissima, compiuta da un fascio d’elettroni, di un certo numero di linee. In pratica, come afferma l’artista Nam June Paik, in video tutto è pura invenzione, tutto è prodotto a partire da un intreccio elettronico e artificiale. L’immagine è sostituita dalle onde elettromagnetiche, mentre lo stesso spazio della rappresentazione non coincide più con il “quadro‿, qualcosa che in campo video è soltanto una convenzione legata alla nozione cinematografica di inquadratura, e non una necessità tecnica. Lo “spazio televisivo‿, infatti, sfugge alle nozioni tradizionali di scena e di schermo. Il fatto è che la televisione ha inventato nuove modalità di apparizione e sparizione delle immagini. Le immagini televisive si muovono in modo particolare sullo schermo: si accavallano, vengono risucchiate dall’interno, ricompaiono come finestre sopra altre immagini in un flusso ininterrotto, un movimento derealizzante che allude a un’idea di spazio chiuso che comprende già tutte le immagini al proprio interno.
Il mondo digitale
Il digitale ha operato una vera e propria rivoluzione nella relazione tra immagine e realtà e quella tra rappresentazione e autore della stessa. Non c’è più un rapporto diretto tra realtà ed immagine con il conseguente collasso dell’autore sulla sua rappresentazione. Nel digitale non c’è più il punto di vista ma dei contesti visivi non vi è più un occhio ma un continuo processo. L’ottica ha ceduto la mano alla visione virtuale, provocando l’emersione di un mondo metavisivo in cui le immagini possono essere prodotte o simulate dal nulla. Questa nuova tecnologia cancella la relazione tra immagine e realtà. L’immagine digitale non è più la testimonianza della realtà, compiuta attraverso la trascrizione della luce, ma è un’interpretazione di questa realtà, elaborata e filtrata da n linguaggio, quello della matematica. L’immagine è un’immagine di sintesi e la realtà non è riprodotta, è creata. Il nuovo mondo dell’immagine digitale mostra chiaramente ed evidentemente quella che è sempre stata la vera natura dell’immagine: il suo appartenere ad un mondo mentale, ovvero, il suo dare luogo a uno spazio concettuale. Dato che l’unico referente dell’immagine, nel trattamento del digitale, è l’immagine stessa, essa si trasforma di conseguenza in un oggetto a sé stante. L’immagine digitale può essere ruotata, allungata, deformata, flessa, allontanata ciò fa si che la sua non sia una rappresentazione bidimensionale ma tridimensionale. La possibilità di reinventare gli spazi attraverso la grafica tridimensionale.
L’astratto elettronico
Alcuni artisti hanno lavorato sulla manipolazione del segnale elettrico puro. La tecnologia video permette, infatti, la creazioni di immagini e suoni video in maniera automatica , manipolati attraverso la manipolazione dei flussi di energia senza l’intervento della telecamera. Sono opere realizzate con sintetizzatori, colorizzaroti, elaboratori, in cui gli automatismi delle macchine creano configurazioni diverse e innumerevoli giochi cromatici. In questo caso il dispositivo tecnologico è
Video e il media televisivo
In opposizione all'uso massificante della televisione, il video-tape diventa un mezzo di controinformazione di carattere sociale e politico, gestito da gruppi emergenti nei movimenti di contestazione della fine degli anni settanta. La TV è autogestita dagli artisti, nel 1967 la fondazione Rockefeller mette a disposizione i fondi per far nascere un programma televisivo a circuito cittadino l'WGBH di Boston, successivamente nascono la WNET di New York e la KQUED TV di San Francisco. Negli Stati Uniti e in Canada nascono i collettivi video, dove le apparecchiature e le conoscenze tecniche sono messe in comune per la realizzazione di progetti, documentazioni e ricerche. I nomi più noti sono Video freex, People's Theater, Global Villane, Raidance Corporation, Ant Farm ecc… Dal 1970 a New York apre "The Kitchen", un centro multimediale in proprio, fondato dai Vasulka e Bill Etra; vista la limitatissima libertà concessa agli artisti e il disaccordo tra la televisione commerciale e il video militante. Nello stesso anno accanto alle stazioni televisive si affiancano gruppi politici: Ira Schneider fonda Radical Softwar, la rivista del movimento underground americano dove sono spiegati i metodi d'uso alternativo e politico del video-tape e nel 1971 viene pubblicato "Guerrilla Television", manifesto del video di movimento scritto da Micheal Shamberg. L'obiettivo della video Guerrilla è quello di offrire un'informazione differente da quella distribuita dai canali commerciali. C'è l'esigenza di costruire una televisione decentralizzata fatta dalla dalla gente per la gente, dando coì una visione reale, dall' interno , introducendosi in ambienti dove il cameraman delle stazioni commerciali, dotato di un equipaggiamento professionale ed ingombrante è tenuto lontano. I loro lavori offrono così una visione reale del caos e delle battaglie politiche, svalutando allo stesso tempo le fasulle trasmissioni del potere. Si arriva a leggere e vedere le cose direttamente senza la mediazione del regista; si vuole dare una testimonianza senza interferire su ciò che è documentato. Il montaggio, infatti, spesso è assente o talvolta costruito in macchina. Il mezzo diventa un obiettivo di lotta e s'impone come lavoro creativo e politico. Chi lavora nel video, lavora contro la televisione (la televisione come istituzione non come linguaggio). Negli anni ottanta c'è una maturazione, nessun videoartista si è sentito più di dover dichiarare che lavora contro la televisione. Spesso si è tenuto a distinguere tra video e televisione ma ad affermare anche che la televisione può essere un canale approfondito per la circolazione e la ricerca video. La televisione ha cominciato a guardare con maggiore curiosità e interesse alla produzione videografica, inserendo nei suoi palinsesti realizzazioni sperimentali di artisti. Troviamo un modello di opera d'arte collettiva nella realizzazione dello spagnolo Antoni Muntadas : "The file Room" del 1993/94. Questa è una delle più precoci sperimentazioni d'artista su Internet. Il progetto ha come obiettivo principale la discussione sull'idea di censura culturale; oggetto di importanti battaglie civili. Questo progetto è nato da un episodio vissuto direttamente dall'artista: la Tv Spagnola gli commissionò un programma televisivo ma questo poi non fu mai trasmesso. L'artista sentendosi frustrato per essere stato soggetto ad una forma di censura pensò che fosse importante reagire creando un lavoro che allontanasse la sua frustrazione e al tempo stesso desse ad altre persone la possibilità di parlare di altri episodi di censura. Infatti questo progetto ha ragione di esistere solo come lavoro collettivo di un work in progress e basato sulla libertà d'informazione. L'archivio è tuttora attivo e accessibile all' indirizzo www.thefileroom.org; è stato realizzato nel corso di questi anni grazie al continuo apporto degli utenti impegnati nella segnalazione di tutti i casi noti di censura culturale della storia.
Video, televisione e cinema a confronto
Quarant’anni di ricerca nell’area sperimentale della arti visuali indicano che la televisione e video non vanno confusi. La televisione ha, come una volta le arti visuali, una colloquialità immediata e diretta e quindi per questo non può che non essere intrigante per gli artisti. La televisione è però anche un’istituzione che massifica il pubblico al basso livello (si è arrivati persino a dire, non senza fondamento, al più basso livello possibile); è uno strumento del potere suadente e violento al quale è impossibile rifiutarsi. La televisione veicola informazioni, spettacoli e film annullando distanze, sociali oltre che fisiche, e allargando a dismisura un nuovo pubblico. Il video invece esplora, e utilizza, le qualità del mezzo elettronico, ne sollecita un’evoluzione efficace sul piano del linguaggio. Televisione e video sono legati allo stesso medium, ma si sviluppano secondo una diversa e, per molti aspetti, opposta dinamica. La televisione, come modello culturale, è caratterizzata da una resistenza tenace, se non assoluta, a ogni forma di innovazione, tecnica e linguistica. Da più di quarant’anni notiziari e spettacoli di intrattenimento appaiono sigillati dentro stereotipi rigidi e prevedibili. La televisione cresce seguendo la logica della più ampia audience possibile, e rispetto a questa stabilità dei programmi viene considerata condizione necessaria così come l’omologazione del pubblico (che non può realizzarsi se non ai livelli meno alti). Il video è invece obbligato dalla sua natura sperimentale a saggiare le risorse del nuovo medium, a scoprirne le peculiarità costitutive e i dispositivi linguistici. Se si confrontano in un diagramma, dal punto di vista innovativo e linguistico, la storia della televisione e quella del video è possibile tracciare una linea con un andamento rettilineo per la televisione, e una fortemente ascendente, anche se infinitamente più esile per il video. La stabilità e il basso regime del sistema televisivo non sono connaturati, ma indotti. La televisione è oggi un apparato fondamentale per la produzione del consenso e la standardizzazione di un consumo culturale acritico. Qualcuno, e in modo interessato, veglia perché nulla cambi. Pubblico e privato, in questo, non dimostrano strategie e orientamenti diversi. All’origine della ricerca video sta la curiosità degli artisti verso il nuovo mezzo elettronico capace di fornire immagini che hanno una consistenza, fisica e percettiva, diversa rispetto a tutte le altre precedentemente realizzate con tecniche manuali o apparecchi automatici. All’affermazione del video contribuisce diversi fattori di natura economica e culturale. Il primo è l’accessibilità al mezzo elettronico, che si realizza concretamente solo alla metà degli anni sessanta, quando la Sony mette in commercio la sua apparecchiatura portatile, il “portapack‿. Le esperienze decisive di Nam June Paik in questo momento sfruttano in pieno le risorse del nuovo mezzo. Nella prima metà degli anni sessanta le ricerche di Wolf Vostell e di Nam June Paik sono realizzate nello stesso contesto, il movimento Fluxus, orientato programmaticamente a riconsiderare, con libera ridefinizione poetica e critica, l’universo dei generi artistici convenzionali e dei nuovi media, alla ricerca di un’inedita attitudine immaginativa e di un più aperto campo di percezione e di comunicazione. La dematerializzazione del campo iconografico, l’attenzione ai linguaggi del corpo, ai processi di temporalizzazione messi in evidenza nella performance, elementi vivi nella ricerca artistica durante tutti gli anni sessanta, vengono riverberati con incisiva efficacia nel campo del video che, a sua volta, fornisce significativi rinforzi a ognuna di queste tendenze attraverso l’utilizzazione delle nuove processualità di produzione e riproduzione di immagini in tempo reale. Il video registra inoltre l’espansione dell’immagine verso la dimensione del suono – elemento constante nell’opera di Nam June Paik – secondo le teorizzazioni e le pratiche largamente verificate da Fluxus. Ed infine da tralasciare non è anche l’intreccio di cinema sperimentale e video. Su questo percorso si realizzano interessanti condensazioni di modelli di ricerca, diffusi a livello internazionale nel circuito artistico, e vengono esplorate articolazioni e formulazioni linguistiche sulle quali la ricerca video fonda i criteri di una intrasferibile pertinenza. La relazione di un’immagine dinamica, capace di esprimere la condizione di movimento del soggetto, collega in modo diretto ordine spaziale e ordine temporale dentro un unico modello strutturale. Questa nuova immagine, tipica del cinema, che si afferma nel mondo occidentale come fenomeno universale agli inizi del nostro secolo , condiziona non solo l’intero universo delle rappresentazioni visive della realtà, come nella seconda metà del secolo XIX aveva fatto la fotografia, ma anche una diversa attenzione rispetto al tempo in cui risulta ora possibile scomporre e ricomporre, nella successione delle rappresentazioni, un coerente e significativo svolgimento sequenziale. Elemento inedito che il cinema introduce nel mondo delle immagini, sin qui tutte statiche nella storia della civiltà, è il nuovo codice di rappresentazione e di organizzazione comprensiva da parte di chi guarda. Sicuro risulta invece il comportamento interpretativo degli stessi soggetti rispetto a un’immagine referenziale statica comunque realizzata. L’importanza che i teorici del cinema hanno sempre riconosciuta al montaggio, cioè alla particolare organizzazione e concatenazione delle singole sequenze, dimostra in maniera subito evidente la procedura degli elementi temporali su quelli spaziali nell’organizzazione significativa ed espressiva del nuovo codice. La possibilità di mettere in causa la temporalità intervenendo con ragionate cadenze e iterazioni a attraverso rallentamenti e accelerazioni virtuali, sulla convezione del tempo, affascina gli artisti che si impegnano, attorno agli anni venti, nelle ricerche, fondanti, del cinema sperimentale. L’estenuazione del tempo, di un tempo-specchio esattamente corrispondente a quello della realtà, non più soggetto alle condensazioni artificiali del tempo cinematografico e nel quale l’immagine dinamica può trovare un compiuto e continuo svolgimento, è anche fenomeno ben presente agli autori sperimentali. Se per lo stesso Léger il tempo della realtà è un tempo insostenibile per qualunque trasferimento referenziale, il cinema non escluso, per Andy Warhol, che in Sleeping del 1968 ne saggia le risorse filmando di notte per sei ore continue dal più alto grattacielo di New York, esso è dotato di un’intrinseca e coinvolgente densità comunicativa. Rispetto alla dimensione temporale l’immagine video si pone con due originali caratteri che ne individuano struttura e funzionamento. Da una parte essa implica, nella sua costituzione fisica, in modo inscindibile, un ordinamento spaziale e uno svolgimento temporale dei singoli punti luminosi di cui è formata, dall’altra è orientata, per i meccanismi di ripresa da cui è attivata, verso una riflessione del tempo assolutamente continua, il tempo reale, che essa riproduce all’istante e che è in grado, attraverso la televisione, di trasmettere con la stessa velocità, ma con ben maggiore evidenza e suggestionabilità, della radio. Più complessi rapporti pone oggi l’intreccio di relazioni tra arti visuali, video e computer. Già nella seconda metà degli anni sessanta, in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti si ha un forte interesse da parte di artisti verso le possibilità operative offerte dai computer nel campo della rappresentazione grafica e, in generale, della visualizzazione. Si preferiva parlare di Computer Art quasi a sottolineare della nuova area sperimentale gli aspetti di sorprendente innovazione, nel senso di una inedita complessione spazio-temporale, e spettacolarità. In secondo tempo si è affermata l’indicazione Computer Graphics che mette in enfasi tanti i caratteri dinamici dei processi computerizzati di rappresentazione quanto le possibili finalità applicative. Luminosità, composizione e qualità del colore dell’immagine video e dell’immagine digitale o informatizzata coincidono. Tuttavia l’immagine digitale si caratterizza per alcune peculiarità. Accanto a una rappresentazione bidimensionale, comune a tutti i processi di rappresentazione si qui messi in atto dalla cultura figurativa occidentale, essa consente una rappresentazione tridimensionale. Se le immagini tradizionali della pittura per essere visibili hanno bisogno di essere esposte in un ambiente illuminato, le immagini del cinema e del video, non soggette alla necessità della luce riflessa, si presentano con altre caratteristiche. L’immagine cinematografica, che è un’immagine retroilluminata e proiettata a una velocità adatta a fornire la rappresentazione del movimento in condizioni di distanza tali da assicurare una nitida messa a fuoco e definizione. Ad esempio, un artista singolarmente aperto alle novità della tecnica come il Carrà degli anni futuristi, in un manoscritto del 1914 intitolato Cineamore, esalta le condizioni paradossali e socialmente negative di un buio affollato in contrasto con le immagini senza consistenza e corpo, fatte vive ne gioco della proiezione. L’immagine video per essere vista non ha bisogno di un ambiente buio. Essa infatti è costituita da una vera e propria “lampada‿ caratterizzata dalla possibilità di ricomposizione continua della sua struttura parcellare luminosa. Per qualche verso, da questo punto di vista, l’immagine video realizza l’aspirazione, allora solo visionaria, di una luce che potesse essere “modellata‿ come auspicava Apollinaire. Il processo che porta alla formazione dell’immagine video è riconducibile per linee essenziali a una trasformazione ottico-elettronica, effettuata da parte della telecamera al momento della ripresa, che diventa elettronico-ottica al momento della riproduzione, trasmissione e visione. Un dato che contraddistingue, in maniera decisa, l’immagine video rispetto all’immagine cinematografica è la possibilità di intervento, più specificatamente di trattamento, della prima attraverso l’utilizzazione di specifici dispositivi computerizzati che risultano in grado di modificarne l’organizzazione strutturale visiva e cromatica; però, rispetto all’immagine chimica, tipica della fotografia e cinema, l’immagine elettronica ha una minore risoluzione. Il colore dell’immagine video risulta dalle diverse combinazioni dei tre colori assunti come fondamentali (il rosso, il blu e il verde) in grado di riprodurre anche il bianco e il nero. La popolare distinzione tra grande schermo e piccolo schermo non è priva di implicazioni utili per la specificazione dei diversi caratteri del dispositivo cinematografico e del dispositivo audiovisuale elettronico. Entrano infatti in gioco, nel confronto tra le due sezioni del suono e dell’immagine, alcuni valori che la psicologia della percezione ha ben studiato sotto la significativa rubricazione di valori di scala. Il particolare risalto che vengono ad assumere la parola e il suono in qualunque presentazione di materiale cinematografico attraverso il dispositivo video, è esperienza che può essere considerata comune. Questo sembra dovuto al fatto che nel grande schermo l’associazione tra percezione visiva, rinforzata dalle condizioni di attenzione concentrata imposta dall’ambiente buoi della sala di proiezione con la conseguente soppressione di ogni altra sorgente esterna sensoriale dello stesso tipo, stabilisce una sorta di dominanza dell’immagine. Nel rovesciamento dei valori di scala che si verifica nel dispositivo audiovisuale elettronico, si ha, al contrario, un regime di dominanza del suono. Una controprova di questo fenomeno può essere costituita dai videoclip in cui il pareggiamento tra intensità espressiva e rappresentativa del suono è raggiunto attraverso una condensazione e intensificazione del ritmo di presentazione delle immagini. La televisione, e il suo schermo, ha dimensioni e funzioni di utensile domestico. Il cinema resta nella maggioranza dei casi un luogo esterno, avvincibile al teatro, luogo di frequenza collettiva. La televisione ama il primo piano, l’evidenza dialogante di chi parla dalla schermo, ama il dettaglio, il particolare, uno svolgimento temporale senza strappi e contrazioni. Il cinema è evidenza di immagini, è azione, è contrazione rapidamente significativa di tempi. Conseguenza ancora del diverso assetto percettivo che si ha nella disposizione del grande schermo cinematografico e del piccolo schermo video è l’assenza, come relazione propria in quest’ultimo, del rapporto, fondamentale in tutta la struttura linguistica del cinema, tra campo e fuoricampo. Nel cinema, il fuoricampo viene a rappresentare un “altrove‿ certo ma fisicamente indeterminato in quanto fuori dal campo di rappresentazione e di esperienza fisica della spettatore. Il dispositivo video non ha fuoricampo. Meglio, il fuoricampo che esso è in grado di stabilire ha una dislocazione troppo prossima determinata rispetto all’immagine presentata per poterne costituire un altrove comunque significativo. Dominanza del suono e assenza del campo e fuoricampo, oltre che oggettiva riduzione e miniaturizzazione del campo iconografico di rappresentazione, costituiscono un punto che può rendere difficile e deformante il passaggio di un’opera cinematografica attraverso l’apparato audiovisuale elettronico.gli standard. Una nota particolare in questo contesto merita la relazione tra apparato audiovisuale elettronico e radio. La posizione della voce, la dominanza del suono, ma anche una particolare modalità di rapportamento referenziale alla realtà secondo l’asse continuo del tempo reale, inducono a considerare come capitale il rapporto tra radio e video. Questa relazione risulta esaltata nel rapporto comunicazione radiofonica-comunicazione televisiva. Per quanto attiene la ricerca nelle diverse forme di arte acustica che oggi continuano a caratterizzare la radiofonia sperimentale, bisogna comunque tener conto della capacità del segno radiofonico di coinvolgere un’aperta, ma non dispersa, complicità fantastica. Differenze essenziali esistono anche tra le procedure del montaggio cinematografico e quelle del montaggio elettronico che oltre a poter più agevolmente intervenire sulla dimensione del tempo attraverso più rapidi sezionamenti della sequenza, rallentamenti e accelerazioni, consente nel fondamentale processo di post-produzione di intervenire sulla stessa immagine di ripresa. In questo modo risulta possibile operare sia sul versante temporale sia su quello di una manipolazione strutturale dell’immagine e dell’audio. Conseguenza dell’assenza di un reale fuoricampo e della contemporanea sovradeterminazione di una temporalità continua, è il potenziamento di una tipica attitudine descrittiva. Si è potuto così parlare di una prevalenza narratica nel dispositivo audiovisuale elettronico, almeno nel senso di un uso proprio delle risorse del mezzo. La manipolazione di una temporalità agita, tipica dello svolgimento cinematografico, e simbolicamente efficace, nel video si organizza in una permutazione continua del soggetto di rappresentazione. La struttura dell’immagine video, sempre dichiarata, viene a confrontarsi così in ogni momento con l’architettura del tempo, per quanto trasferito, frantumato o estenuato questo possa apparire. La particolare disposizione strutturale dell’immagine video è stata vivamente sollecitata da molti sperimentatori. Le caratteristiche strutturali dell’immagine video e l’assetto narratico del dispositivo audiovisuale elettronico influenzano i modelli di performatività artistica che utilizzano le risorse del nuovo medium. Le dimensioni del tempo reale consente rispecchiamenti ed estenuazioni nella durata di gesti che acquistano valore significativo ed efficacia sul piano comunicativo e simbolico. La possibilità di registrazione e analisi speculari degli atteggiamenti del corpo, tuttavia distanziate nella lucente virtualità dell’immagine video, di iterazione e istantanee scomposizioni dell’associazione suono-immagine, e infine di produttive connessioni linguistiche con altri media e apparati, conferiscono specificità e plasticità a queste manifestazioni di perfomatività. In tale prospettiva va anche considerata l’espansione di un fenomeno come la videoperformance, diffuso soprattutto alla metà degli anni settanta, nel quale linguaggi del corpo, percezione di una temporalità soggettiva dialetticamente rapportata al tempo reale e conclusiva rappresentazione simbolica convivono in una sintesi efficace.
Bibliografia
- "L'immagine video" di Fagone Vittorio, ed. Feltrinelli, Milano, 1990
- "Definizione Zero" di Fadda Simonetta, ed. Costa & Nolan, 1999