Intervista a Gianfranco Pangrazio

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italic textAutore: Pangrazio Gianfranco

Tratto da: Benedetti Barbara,"Videoattivismo: dagli anni Settanta ad oggi", tesi di laurea, Accademia di Belle Arti di Carrara, Corso di Teoria e Metodo dei Mass Media, prof.Tommaso Tozzi, Anno Accademico 2005/2006

Titolo Originale: Intervista a Gianfranco Pangrazio

Intervista di: Benedetti Barbara

Anno: 2004


Testo dell'articolo


Qualche dritta per una buona intervista?

La domanda è una fonte di informazione per chi ascolta. Il pubblico che guarderà questa intervista a seconda di come viene porta la domanda riceve un’informazione, al di là del significato delle parole. Se tu hai un modo aggressivo di porre le domande ed è distantissimo dal tuo modo di essere, questo allo spettatore dà un’informazione: l’intervistato è incalzato e quindi deve rispondere con un certo ritmo alle domande che gli vengono poste. Il significato delle parole delle domande è irrilevante, il modo in cui la domanda viene posta all’intervistato diventa un’informazione per chi ascolta. Tutto questo ci porta ad un ragionamento relativo al mezzo e al modo con cui ci si deve rapportare con esso, vale a dire: siccome quello che poi lo spettatore vedrà sarà comunque un lavoro manipolato, dipende da noi la decisione di far sapere allo spettatore le cose che riteniamo più importanti per valutare il prodotto. Questa è già una pratica mediattivista, o meglio di video indipendente abbastanza importante; e siccome è l’autore che decide quello che uno deve sentire o meno, un ragionamento di questo tipo da parte di chi si pone o tenta di porsi nel modo più corretto possibile rispetto al proprio interlocutore diventa tutto argomento di riflessione per chi pensa di fare questo lavoro.

Nei tuoi lavori cerchi di far passare un messaggio o cerchi l’obiettività?

Io cerco di essere obiettivo al massimo anche se mi va di far capire che sono una persona di parte. E farlo capire è già un modo di essere estremamente obiettivi. Rispetto al filmato che abbiamo girato sul G8, prima di noi era uscito solo Indymedia che ha scelto giustamente in quella fase di far vedere solo le botte atroci che la polizia ha dato in quelle circostanze. Noi siamo usciti dopo e il nostro obiettivo era invece dare una versione un po’ più complessiva di quello che era successo in piazza, pur parteggiando decisamente per il movimento e per chi in piazza si era mobilitato. Abbiamo deciso volutamente di far vedere oltre alle botte della polizia anche le reazioni dei manifestanti, quindi lancio di sassi, il tentativo, anche riuscito, di fermare un blindato e il rispondere in qualche modo ad una violenza molto forte che era stata subita dai manifestanti. In particolare il 20 luglio il corteo dei disobbedienti, prima di reagire ha subito due o tre cariche di inusitata violenza. Ci sono alcune circostanze, ben mostrate dai video che abbiamo acquisito anche noi, in cui ci sono sei o sette poliziotti picchiano una persona per due o tre minuti filati con calci, pugni o manganellate profilando una situazione di quasi linciaggio. Dunque un corteo che subisce ripetutamente cariche di questa violenza senza aver fatto nulla prima, poi ha anche un suo diritto a reagire. C’è sembrato giusto e opportuno far vedere queste reazioni.

Come si lavora in un contesto in cui ci sono situazioni diverse da seguire?

Per quanto riguarda quello che è successo a Genova, e che spero si possa realizzare anche in altre circostanze, è che spero si sia realizzato un momento di significativa e bella collaborazione tra le persone che in qualche modo facevano parte di quel movimento e avevano dei mezzi di comunicazione tra cui la telecamera. Direi che una bellissima esperienza è stata quella di conoscere da vicino Indymedia. È un modo di fare informazione diverso da quello che conoscevamo prima. Io ho avuto modo di fare esperienze simili a New York nei primi anni Ottanta, la possibilità di avere contemporaneamente più occhi; cioè Indymedia si rendeva disponibile a fornire a chi non l’aveva certo materiale e viceversa. Il mio incontro con Indymedia è avvenuto proprio sulla base di uno scambio di materiali il primo giorno: io ho dato dei miei materiali e loro poi mi hanno fornito altri materiali per poter raccontare meglio che era successo. Un evento così vasto come quello delle mobilitazioni contro il G8 non era possibile girarlo da solo, era necessario che ci fossero più persone. Già noi siamo partiti in tre e ciò nonostante non siamo riusciti a raccogliere tutto quello che ci serviva nel nostro filmato; in quel caso lì ci siamo rivolti ad Indymedia e ad altri mediattivisti o anche professionisti di settore che volentieri hanno messo a disposizione le loro riprese. Quindi molti dei filmati che sono stati realizzati, e che sono veramente molti, ricorrono ad immagini che non erano solo dell’autore o degli autori, ma anche di quelle persone che in qualche modo si sentivano parte di un certo movimento ed hanno messo a disposizione le loro immagini.

Come ti poni rispetto alle situazioni che si possono presentare durante el riprese?

Per fare il videoattivista ti devi anche assumere dei rischi. In quelle circostanze chi ha girato determinate immagini doveva esserci dentro e doveva rischiare di persona per poterle raccogliere. Ci sono state alcune immagini, in particolare di un operatore tedesco che le ha potute girare e che si è preso delle botte per averle girate. Si assiste in diretta al suo pestaggio da parte della polizia; è poi riuscito a portarsi via questa cassetta e a farla circolare. Il mediattivista non è una persona che sta chiusa all’interno di una stanza; ci sta quando deve raccogliere interviste come questa; però vuole raccontare, vuole documentare gli eventi e quindi deve stare dentro le situazioni. Una cosa estremamente importante che si era verificata in quell’epoca è che perfino le televisioni ufficiali non erano riuscite a raccogliere determinate immagini. Di qua, un po’ per un gioco un po’ perverso per cui alcune cose comunque tirano anche se magari non sono consone al regime o al sistema media ufficiale, un po’ perché alcuni giornalisti da parte loro alcune cose volevano farle vedere, alcune immagini del mediattivismo di Genova hanno invaso le televisioni ufficiali; sono arrivate alle televisioni ufficiali perché solo i mediattivisti le avevano, mentre le televisioni ufficiali non erano riuscite ad arrivarci. Rispetto ad altri linguaggi, ad esempio una ricerca universitaria, una ricerca accademica o l’intervista televisiva, l’intervista di qualche cosa che vedi, non è importante solo per quello che si dice, anzi a volte quello che si dice non è così importante, anzi spesso è banale. È come una persona te lo dice, quindi l’espressione, l’intensità con cui ti dice una determinata cosa…e cambiano i significati al di là delle parole pronunciate, al di là del significato delle parole. Questo è un mezzo che mostra. Purtroppo i telegiornali e le televisioni ci hanno abituato invece al contrario; cioè le immagini sembrano non essere importanti, sembra essere molto più importante quello che si dice e soprattutto il commento che si mette sopra le immagini. Quindi la televisione, che dovrebbe essere una cosa fatta di immagini in realtà è uno svilimento delle immagini. Uno dei format che secondo me come mediattivisti indipendenti (aggiungo questa parola indipendenti perché è importante non avere un editore di riferimento, almeno in partenza ti dà una condizione di maggior libertà) andrebbe recuperato nelle televisioni e che praticamente è sparito, è la narrazione per immagini della città, delle relazioni sociali, con i suoi rumori ambienti, con le sue fragranze, tant’è che in televisione quando raramente capita di vedere qualche cosa che utilizza questa cifra, ci diciamo che allora è possibile fare televisione bene. A me capita a volte, rarissimamente, di sintonizzarmi, magari tardi o prestissimo al mattino, su qualche programma in cui dico qui c’è qualcosa di diverso, mi cattura…e se uno si ferma a riflettere capisce che sono immagini libere dalla gravità della parola; sono immagini libere da giornalisti che vogliono piegare l’immagine al loro discorso…e il linguaggio delle immagini è un linguaggio molto più aperto del linguaggio delle parole, molto più interpretabile, molto più ambiguo. Recuperiamo questo linguaggio, è questo che secondo me va fatto. E va fatto nella condizione di massima libertà, cioè non deve rispondere a nessun editore. È questa la grande forza del mediattivismo indipendente.

Come veicoli i tuoi lavori?

In Italia non esistono canali distributivi di una certa importanza per il mediattivismo. Si è cercato di costruirli con le Telestreet, Indymedia, alcune video Tv , però poca roba, rischia di essere tutto estremamente autoreferenziale, cioè di comunicare tra simili. L’esperienza americana, newyorkese più precisamente , che ho avuto è stata molto interessante perché erano riusciti a creare canali alternativi di una certa rilevanza. Non solo, ad un certo punto i materiali, metti in particolare un video di occupazione di case nel New Jersey e poi era stato venduto anche alle EBC, perché l’EBC era interessata a queste cose. Quindi una volta sfruttata nei canali indipendenti e alternativi, il prodotto è stato venduto all’EBC che però ha fatto un suo cappello che lo snaturava un po’, ma questo dava poi la possibilità di veicolare maggiormente il prodotto e di rientrare economicamente anche di certe spese per poter riaffrontare altri lavori fatti con un certo spirito. Era un mercato molto più dinamico e nella privatissima economia americana a New York, mi ricordo che all’epoca ogni area di New York che comprendeva circa 200-300 mila abitanti doveva avere una keyboard televisiva a disposizione del pubblico. Quindi qualsiasi struttura, associazione o insieme di mediattivisti, poteva accedere una volta alla settimana alle strumentazioni necessarie per veicolare via cavo la loro televisione, cosa che non ha riscontro in Italia ad esempio. Quindi la distribuzione diventa una cosa estremamente importante per riuscire a far conoscere e veicolare determinati prodotti. La nostra è una televisione estremamente blindata, piccola, pubblica e privata.

Attraverso quali canali hai fatto circolare il tuo video G-Hate?

Per il mio video c’è stata una distribuzione militante. Se ne sono distribuite circa 2000 copie, però appunto direttamente dal movimento. Fra l’altro, e questa cosa va precisata perché molto importante, alcune componenti del Genoa Social Forum non si è comportata molto bene da questo punto di vista, perché si è sdraiata come un tappetino sul cinema italiano. Morale della favola è che la versione maggiormente conosciuta da un ampio pubblico di quello che era successo a Genova, è stata affidata in particolare a Maselli e agli altri registi. Ora…il più brutto lavoro prodotto su quell’evento è stato proprio quello lì. C’è un altro evento molto più brutto, ma meno importante e quindi non è stato visto così tanto, mentre la maggior parte del pubblico ha visto il lavoro dei registi italiani, del cinema italiano. È stato davvero un pessimo lavoro. La tesi è: un enorme popolo di beoti s’è dato convegno a Genova per divertirsi, è uscito fuori il demonio (leggi black blok e polizia) che ha guastato la festa e la gente è stata barbaramente picchiata. Questa è la tesi del filmato; non una parola sulla Diaz, non una parola su Bolzaneto, non una parola su una visione un pochino più complessiva, politica, intelligente su quello che era successo. E questo è responsabilità di una parte significativa dell’allora Genoa Social Forum , che non ha colto il fermento mediattivista che si era verificato, o non l’ha sufficientemente valorizzato.

Perché usi la telecamera?

Uso la videocamera perché la so usare, perché è uno strumento che mi piace. Dico quello strumento, quel particolare tipo di telecamera; le telecamere hanno avuto uno sviluppo tecnologico molto forte nell’ultimo periodo: è piccolissima, si usa con estrema duttilità e ha uno standard qualitativo estremamente elevato. Secondo me è un mezzo ideale per fare e riprendere situazioni di movimento perché la trasporti agevolmente, perché la porti ovunque, te la infili in tasca e quindi è un mezzo straordinario da questo punto di vista.

Come ti fai accettare dalle realtà con cui vieni in contatto?

Facciamo l’esempio concreto di Genova e il G8. C’era un centro ufficiale in cui tu ti potevi accreditare come mediattivista e già c’era la possibilità di farti in qualche modo conoscere. Poi avevi un cartellino da mediattivista, di Indymedia o con scritto Genoa Social Forum, etc…che in qualche modo poteva anche quello accreditarti ufficialmente. Ma la cosa più importante è proprio il rapporto che riesci a stabilire con le cose e le persone che riprendi. Insisto, si possono rubare delle immagini e va bene, non ho nulla in contrario da questo punto di vista; credo che però sia molto importante essere dentro alle cose, farsi vedere con la telecamera, di modo che uno ti potrebbe dire:”vattene via, non voglio essere ripreso”…oppure ci sta, va bene, e allora si stabilisce un rapporto empatico con quella persona. Io metto…cerco di mettere al servizio di quella persona l’occhio della mia telecamera e anche qua è una questione linguistica di non poco conto, perché se io pretendo di mostrare solo il mio punto di vista, è una situazione comunque molto parziale e monca. Mi sforzo di mettermi al servizio delle persone che sto intervistando o della situazione che sto riprendendo, cercando di adottare altri punti di vista, anche altri punti di vista che non siano strettamente i miei: allora il mio linguaggio si arricchisce. Ogni persona che riprende ha un suo modo di ripresa, ha una sua cifra specifica…io mi arrabbio molto a volte quando vedo determinati prodotti di persone che sanno già quello che devono dire, che sanno già quello che devono raccontare, non c’è sorpresa in quello che loro vanno a riprendere perché è già tutta una tesi precostituita. Questo è terribile, ma la televisione, e soprattutto il telegiornale, sono così, o anche alcuni documentari che raccontano mondi lontani sapendo già quello che devono dire e non dire. E non dico che sia destra o sinistra questo…sia a destra che a sinistra commettono questo errore perché c’è la presunzione, il preconcetto, il pregiudizio di sapere già le cose…ed è terribile, terribile. Non ci sono linguaggi già scritti, è stato teorizzato molto nell’ambito del linguaggio per immagini, sono stati scritti tanti libri…però è un linguaggio ancora molto da scrivere. Certo l’abc rimane sempre lo stesso insomma, il primo piano, il piano medio, il campo lungo, il campo lunghissimo, il dettaglio…però poi come viene fatto il primo piano, il dettaglio o il campo lunghissimo e come nella nostra narrazione viene gestito, diventa una cosa che non è stata scritta definitivamente, non ci sono regole auree.

Puoi dare una definizione di videoattivista?

È molto difficile rispondere a questa domanda. Credo che da tutto quello che ho detto ne emerga qualcosa. Arrivare ad una definizione secca mi risulta difficile, penso di avertela in qualche modo detta prima. Il mediattivista è indipendente, è indipendente da chiunque…e allora la ricerca dell’obiettività diventa secondo me importante non per raccontare verità assolute, perché quello non è possibile, non esistono forse, ma ponendosi l’obiettivo di raccontare la verità. Questo a volte è molto difficile, perché la verità le persone molto spesso le persone non la vogliono sentire, molto spesso ci si può sbagliare, molto spesso c’è un’attività sfrenata di autocensura. Questo c’è anche nei movimenti ed è una cosa terribile. Credo che uno dei pericoli più grossi a cui deve far fronte un mediattivista che si dice indipendente è proprio l’autocensura e l’auotoreferenzialità. Quindi cominciare sempre domandandosi e interrogandosi su quello che si vorrebbe non far vedere e perché.

Come metti insieme i tuoi ideali con il carattere d’indipendenza, che un video dovrebbe avere?

Beh, perché io ho delle mie idealità, non le voglio nascondere, ed è ovvio che le mie idealità all’epoca del G8 di Genova erano sicuramente favorevoli e si riconoscevano nel movimento, ripeto…un movimento estremamente variegato per cui c’era, come dire, tantissimo… Ma ovviamente io non posso fare un lavoro pretendendo di dire che il G8 mi andava bene o non mi andava bene, cioè partendo in modo neutro da questo punto di vista, io dichiaro di aver fatto obiettivamente un lavoro di parte e offrendo alle persone la possibilità di poterlo valutare… mi spiego: se questo lavoro che ho fatto sul G8 lo vede una persona di destra che la pensa in modo assolutamente diversa da come la penso io, penso che comunque sarebbe un lavoro utile per lui da vedersi perché in qualche modo ci sono elementi di riflessione per chiunque. Allora io non ho censurato determinate cose che potevano essere fastidiose o sono state fastidiose per il movimento, perchè pensavo che fosse una cosa corretta e giusta farle vedere per offrire degli elementi di valutazione. Cioè facendo vedere i disordini che sono iniziati nella prima parte, cioè verso mezzogiorno da parte del cosiddetto blocco nero e parte di riottosa, ho cercato di documentarne il più possibile, facendo vedere che cosa hanno fatto, che cosa non hanno fatto, l’atteggiamento della polizia, senza pormi il problema di assolvere o demonizzare quella parte, non mi interessava, quello che mi interessava era far vedere che cosa hanno fatto e cosa non hanno fatto: quindi quando lo si vede penso che se lo vede uno che fa parte dell’area cosiddetta riottosa cei blackblok beh, ha degli elementi di valutazione, così come se lo vede una persona che è assolutamente contraria o odia quella parte perché la ritiene responsabile di una serie di misfatti che poi in quell’occasione sono successi. Quello che è pericoloso è l’autocensura, è una delle cose di cui dobbiamo liberarci e questo non significa essere di parte, significa semmai dichiarare la propria appartenenza e ciò nonostante far vedere magari cose fastidiose anche alla propria area di appartenenza. Una parte del Genoa Social Forum alcune cose non le voleva vedere, altri proprio le volevano esorcizzare. Avrebbero voluto che non fossero mai successe e ahimè quando succede questo allora uno inizia a costruirsi la verità che vuole, inizia a costruirsi la realtà che più lo aggrada, è terribile…

Qual è oggi la situazione del movimento mediattivista?

I movimenti attraverso dei momenti di alta e momenti di bassa, questo movimento ritengo abbia compiuto degli sforzi di mobilitazione nel tempo estremamente reiterati e ravvicinati. Secondo me sta vivendo da questo punto di vista un momento un pochino di stanca. Non so quale potrà essere l’evoluzione possibile e dunque, si tratta anche di riuscire in qualche modo a vivere questi momenti di stanca non desistendo rispetto ad alcuni obiettivi che in questo momento sono di grandissima importanza, il poter rompere la cappa diciamo monopolistica della informazione ufficiale, il poter dar vita a canali alternativi, anche sbagliando, anche correggendo, ecc…, mi sembra un obiettivo che continua ad essere estremamente importante rispetto al quale molte persone stanno continuando a lavorare con momenti di maggior felicità o momenti invece di maggior difficoltà. Si è aperta una stagione che non si chiuderà perché in qualche modo la gente che crede in determinate cose continuerà a lavorare in questo senso. Ripeto nei momenti più favorevoli o meno favorevoli, non ha importanza, ma questo discorso della necessità di una informazione più indipendente, meno blindata, si è aperto e prima o poi credo troverà delle soluzioni, svilupperà delle dinamiche che porteranno ad un qualche cambiamento.

Cosa vorresti dire ai tuoi interlocutori?

Questo momento che stiamo vivendo io e te mi sembra estremamente significativo. Tu non fai parte di nessuna televisione non hai nessun editore di riferimento e stai facendo un lavoro su un qualcosa che ti sembra estremamente interessante. Lo sviluppo dei mezzi tecnologici e la voglia di dare una determinata direzione a prodotti video televisivi mi sembra già un significativo punto di partenza; e allora che voglio dire…compratevi delle telecamere, usatele e imparate ad usarle bene e cercate di capire come è possibile fare un’informazione indipendente rispetto al quadro estremamente asfittico di informazione che ci troviamo di fronte, insomma; di rompere, di trovare delle strade alternative, di creare dei canali di distribuzione, di trovare dei momenti di confronto, di ragionare sul mezzo, sul linguaggio.