Il corpo post organico
Il corpo post organico
di Sara Simonini
Una problematica centrale oggi giorno è quella del corpo. Si sente parlare molto del corpo e se ne sentirà parlare ancora di più negli anni a venire, perché il corpo è in questione: o scompare tradotto in numeri, “numerizzato" divenendo una collezione di molecole elettroniche, oppure sarà rafforzato mediante la sua estensione. Il corpo contemporaneo è un corpo bionico, un misto di tecnologia e biologia. L’esplorazione del corpo diviene quindi fondamentale come necessità di mutare la nostra comprensione di relazione tra il corpo e l’ambiente. Oggi questa relazione è mediatizzata dalla tecnologia che con il suo progresso tanto repentino, quanto inquietante perché le sue applicazioni riguardano il vivere, il nascere e il morire, ha messo in discussione il significato stesso della vita e della morte, il criterio in base al quale definire un individuo “persona".
L’importanza della tecnologia sta nell’astrazione che attua mediante la sua velocità operativa e lo sviluppo di sistemi sensoriali estesi. La tecnologia desensibilizza il corpo; essa disconnette il corpo da molte delle sue funzioni. Il corpo non può rinunciare ancora alla sua autonomia, ma certamente può rinunciare alla sua mobilità. Il corpo, connesso a un network macchinico, deve essere desensibilizzato. Di fatto, per operare nel futuro e realizzare veramente una simbiosi ibrida, il corpo dovrà essere sempre più anestetizzato. Da sempre il corpo è stato territorio di studio, attraversato da processi di ridefinizione Identitaria e di rovesciamento dei ruoli sessuali. Il corpo assume molta importanza con nuovi processi di costruzione fantastica tra organico e inorganico con vari trapianti ed incroci luogo di trasformazione meccanica. II corpo quindi viene usato come mezzo d'espressione artistica, a partire dagli anni sessanta fino ad arrivare agli anni novanta con un dislocamento totale di corporeità, lasciando un certo timore dall'inconscio si arriva ad una smaterializzazione della carne che diviene alterazione, trasformazione del sè. Il corpo degli anni novanta diviene un corpo manipolato un corpo programmato.
Già il Medioevo e l'epoca moderna furono pervasi da figure straordinarie e mostruose narrate dai viaggiatori e dagli esploratori, specialmente europei, che incutevano timore e un forte senso di repulsione. In quei tempi il "mostro" era una creatura naturale che rivestiva di volta in volta valori e significati differenti, ma che, di fatto, testimoniava un'ibridazione tra uomo e animale - dove spesso la linea di confine tra le due entità non era nemmeno troppo netta - i cui risultati erano a dir poco orifici. La dialettica del doppio è collegata ad una istintiva credenza nella debolezza del soggetto, e al bisogno di vincere la sua finitezza. In origine, come nota Freud ne Il perturbante, il doppio era "... un'assicurazione contro la scomparsa dell'Io e probabilmente il primo sosia del corpo è stata l'anima immortale". La proiezione che l'uomo compie nell'automa è un superamento. E' la ricerca della immortalità. Le malattie e la morte sono dimensioni che non toccano l'automa. Nello stesso tempo, però, gli viene negata la possibilità di procreare, proprio perché dalla procreazione ha origine la vita e con essa la morte.
Il passaggio dall'ibrido naturale a quello artificiale fu piuttosto breve. Nel Rinascimento l'alchimia giocò un ruolo essenziale nella creazione della figura dell'homunculus e del golem. La leggenda del Golem è immagine antica e potente di doppio. Secondo la leggenda, il rabbino Judah Loew ben Bezabel anima questa creatura d'argilla perché essa difenda la comunità ebraica. Il rabbino, però, perde il controllo del Golem, che comincia a seminare il terrore. Questa creatura, che ha ispirato molte opere letterarie, inaugura in letteratura "... la stagione degli automi pazzi e sanguinari che sfuggono al controllo del loro costruttore, che seminano morte e sono destinati alla distruzione. Privati del rapporto continuo col controllo umano, non possono che rivoltarsi contro gli uomini ed essere identificati nelle loro azioni col costruttore".
L’uomo nell'automa che crea e di cui parla, riversa il suo lutto, la sua nostalgia e la sua impossibile rivolta. Infatti le reazioni psicologiche che queste creature scatenano portano gli scrittori ad attribuir loro caratteristiche negative propriamente umane, a cui, in realtà, gli automi dovrebbero sfuggire. Ecco perché in molti romanzi e racconti agli automi è riservata una fine "umana" orribile: finiscono bruciati, annegati o precipitati in abissi senza fine. Inoltre, sempre a causa di meccanismi di autodifesa, gli scrittori sottolineano spesso una superiorità dell'uomo fondata sull'anima che egli ha e che invece manca agli automi. Per questo gli automi protagonisti di molti libri supplicano i loro costruttori perché venga data loro un'anima, riconoscendosi, in questo, inferiori agli uomini.
La novità letteraria di Frankenstein (1818), la presenza cioè della creatura (definita, di volta in volta, mostro, demone) che non solo rappresenta l'incapacità degli esseri umani di riconoscersi nell'altro da sé (il diverso) e di trovare in esso amore e compassione, ma che è anche l'emblema di chi osa sfidare la Natura, costituisce il fulcro di partenza nella creazione delle prime figure mutanti. Pur non comprendendo una vera e propria teoria scientifica, Frankenstein può comunque essere considerato un racconto di fantascienza. La fantascienza è nata sotto il segno del mostro.
Frankenstein introduce il tema del doppio: il doppelganger, ovvero la copia o la proiezione di se stessi, tipico della fantascienza contemporanea. Il doppio "umano" della letteratura fantastica si trasformerà nella science fiction del Novecento nel doppio "artificiale", vale a dire nel robot, nell'androide e nel cyborg, ma anche in una forma umana deviata rispetto a ciò che viene comunemente definito "normale".
Trattando gli immaginari di mutazione e di ibridazione che scaturiscono immediatamente pensando all’interazione di un corpo fisico con dei dispositivi tecnologici, si potrebbe retrocedere con il pensiero fino ai racconti del 1800, quando si considerava la possibilità, in seguito all’esaltazione per le nuove scoperte scientifiche del 1700, di creare dei doppi, degli automi. Basta pensare al Frankenstein di Mary Shelley del 1816, portato in vita dagli strumenti alchemici della scienza, ai racconti di Nathaniel Hawtorne, di Herman Melville, di Edgar Allan Poe, di Robert Louis Stevenson, per non parlare dei racconti del 1700 di Hoffmann sugli automi.
L’automa, con i suoi dispositivi artificiali e il suo funzionamento assolutamente prevedibile, è il simbolo del nuovo uomo industriale, l’uomo che ‘è diventato automa nella mente e nel cuore, come lo è nella mano.’ Ecco quindi una nuova contraddizione: l’uomo, diventando macchina, potrebbe assicurarsi l’immortalità ma solo a prezzo di perdere la sua umanità, solo a prezzo di uccidere in se stesso ciò che lo rende uomo, in ultima analisi la vita. L’immortalità raggiunta nella macchina, insomma, condurrebbe ancora, per un’altra via, di nuovo alla morte."
Poi il corpo viene visto come terra di frontiera della scienza, ossessione dei mass media, protagonista assoluto dell’immaginario collettivo. I creatori-artisti, con performances in crescendo di ripugnanza, si gettano in faccia i sogni e gli incubi -e in questo sono sommamente cyberpunk. Recepiscono con lucida follia aberrante ciò che noi solo oscuramente temiamo -o desideriamo- e che ci viene presentato in modi addomesticati e tranquillizzanti dai canali ufficiali. Dunque, non più le regole della selezione, ma le regole della scienza.
Il cyberpunk dunque, in quanto forma culturale che manipola l’artificiale, che vi si immerge e se ne nutre a pieno ritmo, ha compiuto lo sconfinamento dai ranghi esclusivamente letterari, invadendo ogni possibile forma espressiva, creando una rete di richiami e rimandi, citazioni-plagi-copiature.
Il cyberpunk vive da più di dieci anni: da quando uscì il Neuromante di William Gibson. E’ caratterizzato dalla familiarità con l’artificiale.
"Artificiale", da intendersi in senso letterale di "fatto ad arte" da un "artefice", cioè un "creatore", un "artista", un "autore"."Artificiale" come sinonimo di "meccanico": una "macchina" non naturale, dunque costruita dall’uomo.
Cyberpunk, come segno culturale dei tempi in un’epoca marcata dallo spaesamento, dal relativismo, da una "crisi di crescita", non sa offrire altro che ulteriore spaesamento e disancoramento.
La familiarità con l’artificiale rimane sempre al centro del vortice, è l’occhio del ciclone. L’estetica cyberpunk è estremamente bipolare e duale e esalta sempre più la contrapposizione tra il bello-bellissimo contro il brutto-bruttissimo. Per personificare, anche a prezzo della banalizzazione: Superman contro Frankenstein.
Bellezze artefatte, artificiali-artificiose, che violentano il nostro senso e i nostri canoni estetici e che sono tanto più orride quanto più ricche -perché ci vogliono risorse economiche e materiali e tempo a disposizione per praticarle e ottenerle e poi ostentarle, queste nuove bellezze/bruttezze. La bellezza si riduce a una questione, quasi, di "aereodinamicità", di coefficienti numerici.
Il cyberpunk potrebbe quasi operare una riforma estetica del piacere, rompere la connessione tra il piacere ed il bello.
Gli ispiratori del Cyberpunk come corrente letteraria sono parecchi. Dalle loro opere emerge una fusione fra spazio interno e spazio esterno, a partire proprio dalla sperimentazione all’interno dell’opacità tecnologica. E’ la stessa opacità tecnologica che si trova nei Mirrorshades di Bruce Sterling (gli occhiali a specchio, nome che lo scrittore dà alla sua antologia), da considerare come icona immaginaria di partenza, centro delle reti neurali che danno forma agli immaginari passati (gli anni Sessanta-Settanta) e futuri (l’epoca attuale) del cyberpunk degli anni Ottanta.
Segue poi William Gibson, con Neuromante, 1985, romanzo-culto che afferma la definizione "cyberpunk" per indicare una precisa tendenza della narrativa fantascientifica. Ipotizzando un futuro molto prossimo, Gibson fonde atmosfere noir e tecnologia hard, narrando le avventure di John Case, un cowboy della consolle, abilissimo nel muoversi all'interno dello spazio cibernetico, ma anche intenzionato a trarre profitti personali da questa sua dote. Case era il migliore nel suo campo, ma aveva perso la possibilità di navigare nel ciberspazio perché il suo sistema nervoso era stato danneggiato come ritorsione ad uno sgarro: quando i suoi furti cibernetici confliggono con gli interessi di forze economiche e criminali e potenti, per Case iniziano i problemi.
Un altro libro che ricorda questo confluire di spazio interno in esterno e viceversa trasportando il lettore in un universo onirico da visione acida è Il Pasto Nudo di William Burroughs, anche quest’ultimo da considerare come uno dei padri del cyberpunk. Questa volta la scrittura di Burroughs può essere considerata non solo un bisturi che scava, ma un bisturi che taglia gli immaginari della nuova carne per ricomporli casualmente, attraverso la tecnica del cut-up, in un’opera letteraria che costituisce uno dei romanzi di culto della Beat Generation. Il testo di Burroughs si compone di tagli narrativi che -interagendo fra loro- generano atmosfere visionarie, conferendo senso all’opera mediante le pulsioni minimali che il lettore riesce a ricevere ed elaborare. Infatti, la tecnica del cut-up di Bourroughs pone il lettore, forse per la prima volta fino ad allora, in una condizione di non-passività: di fronte ad un apparente delirio psichedelico, il lettore è stimolato a creare le personali trame di senso, costruendo un mosaico mentale partendo dai tasselli disposti casualmente da Burroughs. Il libro ricorda la tecnica del montaggio, ma non è un montaggio imposto, bensì lascia la possibilità di autogestire i significati.
In Dick anche ritroviamo il tema dell’inganno dei sensi dettato dalla commistione fra una una tecnologia opaca e penetrante ed una realtà grigia ed evanescente. Gli individui si trovano a vivere in mondi mutati da una tecnologia onnicomprensiva ed invadente, che disgrega i tradizionali punti di vista, le sfaccettature della realtà. In un mondo in cui l’artificialità dei media e delle droghe ha pervaso tutto, i personaggi dickiani sembrano ricercare un anelito di libertà, nel misticismo o nella lotta contro un potere senza origine manifesta. Però, come in Cacciatore di Androidi la libertà si scioglie nelle trame dell’artificiale, come sembra sciogliersi il replicante Roy (Rutger Hauer) sotto la pioggia radioattiva verso la fine del film Blade Runner di Ridley Scott (1982). Anche il film Blade Runner in qualche modo tradisce il libro di Dick, basta pensare all’importanza conferita agli animali elettrici nel libro, come pesante simbolo di contaminazione fra reale e artificiale e come specchio del dramma interiore di un’umanità che sta perdendo progressivamente ogni organicità ed umanità, mentre tutto questo appare solo marginalmente nel film. Oppure si può pensare alla figura mistica di Mercer, assente nel film, che nel libro costituisce un’entità spirituale raggiungibile collettivamente, introiettando uno spazio virtuale attraverso una macchina. Mercer è il simbolo di una libertà collettiva cercata con la sofferenza che, quando sembra avvicinarsi, fa precipitare l’individuo nel regno della morte e della finzione. Però il film trasmette in modo esemplare quella sensazione claustrofobica di impossibilità di fuga dalla finzione e dall’artificializzazione della realtà attraverso le atmosfere ricreate con una pioggia incessante, l’oscurità degli ambienti rischiarati solo dalle luci al neon, le voci automatiche della metropoli, la violenza degli inseguimenti senza via di salvezza, gli aspetti surreali dei personaggi. Anche qui le strategie dello sguardo assumono molta importanza e si va dagli sguardi penetranti e gelidi di Roy (Rutger Hauer), a quelli acquosi di Rachael (Sean Young), a quelli ironici di Pris (Daryl Hannah) a quello opaco del gufo tecnologico.
Replicabilità del corpo. Riproducibilità del corpo. Nel cinema, arte dell'immagine e del sogno il tema del corpo riprodotto, "ricostruito", è stato utilizzato piuttosto spesso, sotto forma di robot, androide, automa o replicante. L'automa è un singolo, un unicum, non ha parentele se non col suo creatore. La dimensione della conoscenza dei suoi simili gli è preclusa. I robot, invece, costituiscono una collettività, sono prodotti in serie, come gli oggetti industriali: sono una nuova razza, una nuova specie. Il robot non è più soltanto, come l'automa, il simbolo e l'indicatore di un problema interno all'uomo: comincia ad avere problemi suoi specifici. Se, paradossalmente, non si può parlare di psicologia dell'automa, si può invece parlare di psicologia del robot.
Il corpo artificiale è una sfida allo sguardo, come ogni doppio. La sua visione è insostenibile perché in esso opera un paradosso, una divaricazione mostruosa tra l'apparenza e l'essenza. Secondo McLuhan l'età moderna comporta una separazione gerarchica tra i sensi e l'insediamento, al vertice di questa scala, del senso della vista. Il cerchio adesso si chiude. Se il robot e l'androide sono considerati tra i simboli estremi del processo di massificazione nato con la civiltà industriale, ora questo processo sembra entrato in crisi: le nuove tecnologie della comunicazione ci impongono una ridefinizione dell'autopercezione dell'uomo e del suo rapporto con l'esterno. La tecnica si insinua molecolarmente nel corpo dell'uomo e lo trasforma in qualcosa che non è totalmente artificiale, ma non può più dirsi neppure naturale. Il cyborg, l'androide, i nuovi ibridi del ventesimo secolo, segnano il deperimento della società di massa ed il ricrearsi, nel corpo dell'uomo, di una forma intima e segreta, suo bisogno ineliminabile.
Il termine robot designa un automa vagamente antropomorfo, in genere con superficie metallica; ma se l'automa, pur conservando una natura essenzialmente meccanica, è ricoperto da una "pelle" molto simile a quella umana, si comincia a parlare allora di un androide; infine, se il robot è piuttosto un uomo sintetico, costituito da tessuti organici artificiali e artificialmente vivi, viene talvolta usato il termine replicante.
E’ solo nel secolo successivo (il nostro) che si approderà ad una visione di un nuovo rapporto organico con la tecnologia, portando le riflessioni sull’immortalità su un piano che coinvolga direttamente l’essere uomo. Negli immaginari cyber il corpo umano sembra essere invaso dalla tecnologia, fondersi con essa in un rapporto fatto di una mutazione illimitata e impermanente, un nuovo modo per toccare la soglia del limite senza necessariamente eliminare la componente organica e vitalistica del nostro essere uomini. In realtà queste tematiche sotto certi aspetti non possono neanche essere considerate immaginari perché in alcuni campi sono diventate pratiche reali, da quello artistico a quello della neurochirurgia, dall’ambito della comunicazione a quello della scienza. Oggi si lavora praticamente sull’immaginario, lo si manipola, lo si trasforma, lo si crea. Molte pratiche che solo quindici anni fa erano considerate fantascientifiche, oggi diventano reali sotto la scia dell’accelerazione temporale tipica della società postindustriale e elettro-informatica. In alcune pratiche in cui si ibrida uomo e macchina non si tocca il limite rinunciando alla vita per la morte, come poteva avvenire nei racconti sugli automi sopra accennati, ma la morte entra nella vita e la vita entra nella morte… Anche il confine fra vita e morte in certi casi risulta sfuggente.
Nella nostra società, ormai da millenni, pressoché tutto è artificiale, cioè inventato, si tratti di regole di comportamento o di mezzi tecnici per vivere tutti i giorni. Il corpo è sempre meno percepito come qualcosa di naturale. Il corpo si può, anzi si deve cambiare: dapprima si trattava di un imperativo etico e usava metodi percepiti come "naturali": le medicine, la prevenzione sanitaria (che producono generazioni sempre più forti, alte, longeve, sane); poi gli interventi chirurgici ... e qui si ha la svolta ... prima quelli indispensabili, ed anche drammatici, salvavita, poi quelli sempre più accessori, quasi voluttuari. Ed ancora, le manipolazioni genetiche, per correggere ed eliminare difetti e malformazioni: anche qui, dapprima solo i caratteri dannosi e mortali, poi la possibilità, sempre più realistica, di mutare anche gli aspetti esteriori. Nell’elenco ci vanno anche i cloni, gli animali e le piante transgeniche, tutte le possibili variazioni tecnomediche sul tema "concepimento e gravidanza". Il corpo è sempre più visto come uno strumento, e come tale modificabile a piacimento fin nei suoi aspetti più marginali e semplicemente esteriori. Il fatto è che la concezione del corpo come strumento e la familiarità con l’artificiale, sfociano molto presto nell’abbattimento dei confini tra organico e inorganico: il corpo come ricettacolo di "pezzi" estranei, clonati o trapiantati o costruiti. Il corpo bionico, il cyborg, carico di gadget e optional elettronici e meccanici, di prese, di spine, di interfacce, di interruttori, come i cybercowboy gibsoniani. Nel nostro mondo vanno a braccetto i mass media interattivi, il cyberspazio e la realtà virtuale (e dunque l’esaltazione della vista e dell’udito, sensi logici e freddi), insieme con esperimenti e ‘giochi’ chirurgici col corpo.
Per chiarire meglio a cosa si sta trattando basta ricorre ad alcuni esempi.
Stelarc
Stelarc, artista australiano nato a Cipro (vero nome Stelios Arcadiou), è uno degli esponenti più estremi della body art.
Nato il 19 Giugno del 1946, nell’isola di Cipro (Grecia), si trasferisce giovane in Australia, dove intraprende gli studi all’Università delle Arti e della Tecnologia, nella città di Melbourne.
Finiti gli studi, si sposta in Giappone, dove trova l’ambiente ideale-tecnologico, dove produrre i suoi lavori.
Insegna arte e tecnologia alla “Scuola Internazionale" di Yokohama e disegno e scultura alla Università di Ballarat. Verso la fine del 1960, le sue performance si estendono in Giappone, Europa e Stati Uniti. A parte i tradizionali luoghi di ritrovo i suoi lavori sono stati inclusi in una varietà di musica nuova e festival dance, come anche il teatro sperimentale.
Stelarc lavora sull’artificialità del corpo intesa come territorio di sperimentazione e mezzo con cui mettere alla prova e testare i limiti della componente organica del nostro corpo biologico. Stelarc vuole superare le limitazioni della "vecchia carne" sottoponendola a condizioni estreme e dimostrandone l’attuale obsolescenza, aprendo una via ai possibili innesti tecnologici. Le pratiche di Sterlac vogliono quindi quasi essere sperimentazioni scientifiche e vanno al di là dei masochismi espliciti degli "Azionisti Viennesi" degli anni Sessanta-Settanta, che inscenavano performance con violente mutilazioni corporee autolesioniste e non vogliono neanche essere azioni artistico-espressive corporee come quelle di molta Body Art. La tecnologia non è vista come qualcosa di opprimente e castrante, bensì come mezzo per amplificare l’azione corporea ed arrivare alla costruzione di un "organismo nuovo", un cybercorpo, che, tramite la tecnologia, può allargare l’area dell’esperienza e aprire la strada verso possibilità insperate. La tecnologia implosiva (innestata all’interno del corpo), secondo Stelarc, potrà arricchire e diversificare il genere umano, che sarà così in grado di autodeterminare la sua evoluzione, a seconda dei suoi bisogni e desideri personali.
In un’intervista del 1992 riportata nella rivista inglese Variant, Stelarc afferma: "Siamo giunti a un punto nel nostro sviluppo post-evoluzionistico in cui la normale evoluzione organica darwiniana non è più determinata dai fattori presenti nella biosfera, dalle forze gravitazionali. Adesso lo è dalla spinta delle informazioni, abbiamo accumulato questo input che produce questi desideri di esplorare, estendere, amplificare, valutare, diagnosticare maggiormente. Così ciò che ha inizio come strategia evoluzionistica, questa curiosità che è essenzialmente il risultato della nostra mobilità e percezione, ora giunge a un punto in cui questa accumulazione (di informazioni) comincia ad avere una propria dinamica e direzione e agisce da propulsore per il corpo e lo forgia in nuove forme. Il campo dell’informazione ora modella la struttura del corpo." All’inizio, secondo questi dettami, Stelarc opera pratiche di autoresistenza corporea, sottoponendo il suo corpo a condizioni di limite psicofisico: sono un esempio di questo le "sospensioni" che egli inscenò nei primi anni della sua azione artistica (primi anni Settanta), in cui sospendeva in aria il suo corpo prima retto da imbragature, poi da ganci infilzati nella pelle (come alcuni rituali sciamanici). In questo modo il corpo viene "educato" alla resistenza e al superamento delle condizioni limite, come in alcune forme di ritualità orientale e di teatro giapponese, al fine di studiarne le dinamiche strutturali in seguito agli interventi diretti perpetuati dall’uomo e dalla tecnologia su di esso. Ma le vere e proprie pratiche di ibridazione tecnologica iniziano con gli esperimenti della "terza mano" di Stelarc (iniziati nel 1984): qui la struttura corporea viene amplificata attraverso una protesi meccanica di una mano che viene interfacciata al corpo umano (il progetto si basava su un prototipo sviluppato presso la Waseda University di Tokyo). Mentre le "sospensioni" richiamavano l’idea di un corpo attraversato dal flusso tecnologico per il suo ergersi nel vuoto quasi in una progressiva smaterializzazione, con gli innesti tecnologici il corpo si fa realmente contaminato dalla tecnologia. La mano artificiale presenta cinque dita che possono flettersi tramite un motore applicato localmente e il suo movimento viene generato dallo stesso Stelarc, poiché la mano, disposta sul braccio destro, è collegata a dei sensori collocati sul braccio sinistro, l’addome e le cosce. I sensori captano le contrazioni dei muscoli di queste zone del corpo e li amplificano elettricamente, facendoli interpretare da un programma che li interfaccia ai vari movimenti della mano meccanica, che può essere così controllata dal performer. Ancora più ad effetto è la performance "scultura per stomaco" del 1993, in cui Stelarc ingoia una capsula fatta di acciaio al titanio, argento e oro, collegata tramite un filo ad un servomeccanismo comandato da un circuito logico. Il processo di ingestione viene ripreso da una telecamera miniaturizzata endoscopica e, quando la capsula arriva nello stomaco, si apre attivando il servomeccanismo ed iniziando ad emettere luci e suoni. Qui il corpo si fa "cavo", ma la vera smaterializzazione si ottiene con la performance del 1994, che fa uso dello "Stimbod" (stimolatore muscolare multiplo): tramite il mouse o un touch screen del computer, che può anche essere collegato via modem, vengono inviate delle scariche elettriche di medio voltaggio su alcune zone del corpo del performer, i cui muscoli cominciano a muoversi in modo involontario. Questo sistema è usato in "Ping Body", una delle performance di Stelarc più recenti, che "indaga le possibilità di controllo a distanza dei corpi attraverso l’uso di stimolatori muscolari ed un collegamento in rete: ‘pensate alle applicazioni nel campo del NetSex. Mentre mi trovo qui [in Italia] posso parlare con la mia donna in Australia munita del mio stesso equipaggiamento. Se mi carezzassi il petto, lei di riflesso, e quasi del tutto involontariamente, si toccherebbe il seno, e il suo tocco verrebbe ritrasmesso a me in un reciproco amplificarsi delle sensazioni.’ L’equipaggiamento cui Stelarc si riferisce rende molto concreta l’idea di ‘protesi’ della quale McLuhan ha molto parlato. Un intrico di cavi sulla pelle, quasi secondo sistema nervoso, in un tentativo di cancellazione del confine interno/esterno. Pelle che non è più ‘un limite esclusivo, ma un’interfaccia di comunicazione con la macchina e con i sistemi sensoriali tecnici ".
Il corpo, nelle performance di Stelarc, si fa quindi oggetto di riprogettazione, di sperimentazione tecnologica, viene programmato per modificare la sua struttura. Questo però non è visto da Stelarc come una forzatura castrante per tutti gli individui: per lui è una scelta, una forma di libertà soggettiva.
Stelarc sostiene: "Io non voglio che gli individui siano costretti a riprogettare il proprio corpo, sto solo esplorando delle vie attraverso le quali chi lo vuole possa farlo. E potrebbero volerlo fare perché il corpo è diventato sempre più obsoleto nell’ambiente ad alta densità di informazione che l’uomo stesso ha creato. Nessuno può sperare di assorbire e processare in modo creativo tutta questa informazione. La tecnologia, con tutte queste macchine che sono più precise e potenti del corpo, lo ha accelerato: il corpo vive ormai in condizioni di gravità zero, o di velocità di fuga da un pianeta. Per questo ritengo che esso sia biologicamente inadeguato. L’approccio ergonomico non ha più senso. Non si può continuare a progettare una tecnologia per il corpo quando la tecnologia usurpa e surclassa il corpo in continuazione. E’ ora invece di adeguare il corpo alla macchina, di dargli un’accelerata. Nella connessione alle reti cyber, per esempio, siamo ancora limitati dalle tastiere, e altri dispositivi del genere. Il collegamento diretto al cervello non è solo una fantasia fantascientifica, è già un’esigenza reale." La posizione di Stelarc è abbastanza estrema e molti lo hanno accusato di non occuparsi a fondo delle conseguenze sociali ed individuali che simili mutazioni potrebbero comportare. Le sue pratiche comunque non lasciano indifferenti verso certi scenari di postumanità e scatenano parecchi interrogativi e riflessioni in chi vi assiste. Sono inoltre uno specchio degli immaginari della nostra epoca e, attraverso queste, è possibile vedere concretamente realizzate le tendenze ibridanti e mutanti che hanno animato tanta letteratura del nostro secolo (come il cyberpunk) e preparare la nostra mente al mutamento dei corpi cui le tecnologie ci stanno progressivamente portando. Le riflessioni di Stelarc si avviano verso la smaterializzazione del corpo e la mutazione/dissolvenza della carne in reticoli di dati, immersa nelle derive di uno spazio virtuale. La pelle diventa uno schermo, la superficie per tanti evanescenti tatuaggi elettronici. Il corpo si espande nelle trame del cyberspazio, il non-luogo senza frontiere evocato dai romanzi di William Gibson, un’interzona in cui non solo dilatare le potenzialità del corpo umano, ma anche pervenire a maggiori forme di libertà e democrazia universale.
Jana Sterbak
Tutto il lavoro di questa artista è permeato dal distacco dal corpo, messo in una zona di confine tra una sorta di conflitto tra la natura fisica e artificio umano. Poiché la base della nostra esistenza é fisica ci obbliga quasi ad oltrepassare i suoi contrasti. Jana vuole creare sensazioni avvicinandosi al corpo, sezionandolo e caricandolo di suggestioni, scomponendolo e rinvestendolo di significato nel Korper . Questi organi sono dei passaggi emozionali, tracce dell'io desiderante, in cui avviene un processo di divenire del corpo dove Sterbak attraversa la soglia del desiderio. Più si fa corpo e più si scatena il desiderio. Partendo da questi presupposti appunto Jana realizza una strano vestito in cui il corpo resta immateriale, diviene solo contenente invisibile, corpo che offre solo il suo sentire, un corpo sognato non in verità. Il vestito è realizzato in filo elettrico collegato ad una presa a muro. Quando la spettatore si avvicina un occhio elettronico attiva il lavoro riscaldando i fili. Sinestetico e caldo il vestito è un immagine corporea, un artificio sensitivo. Di fronte viene proiettato il testo della Sterbak: (voglio farvi sentire come mi sento io; c'è del filo spinato attorno alla mia testa e alla mia pelle graffia la mia carne all'interno). Un altro lavoro di una certa importanza è Flesh Dress, un vestito mutante composto da carne, grasso, muscolo e fili di ferro. E' orrendo indossarlo per la sua consistenza grassa e viscida, e per l'idea di pelle di cadavere con cui è stato realizzato. L'opera ci mette a confronto con un'immagine accelerata della morte che ci ricorda, secondo Jana, il materiale era pieno di significati anche se provoca polemiche e sgomento. II vestito rappresenta il colpo all'umana sensibilità, é per Jana una soglia che precede il contatto vero con il corpo in quanto l'ispezione si svolge attorno ad esso in uno stadio di quando viene immaginata. Jana successivamente vuole prendere posizione sul ruolo dell'artista,vuole scoprire sensazioni attive,e lo fa appunto costruendosi la corona laurea, una macchina diabolica costruita di alloro bruciante e pericolosa fabbricata per mezzo di un congegno elettrico. La corona è per l'artista un contrasto fra simbolo di vittoria ed estrema follia. Nella performance Jana si presenta completamente nuda, con della polvere da sparo in testa che si infiamma e spegnendosi lascia una lingua di fuoco. Ancora dopo, Jana cede alla macchina le performance successive, in quanto la carne è stata cannibalizzata. Lo fa appunto con Telecommande, è una sorta dì robot-machine visionario e sospesa nel tempo da una gabbia all'interno della quale il corpo femminile viene sospeso. La struttura metallica è montata su due motorini telecomandati a distanza, il corpo femminile viene incastrato ed imprigionato non potendo né toccare il suolo, né controllando i propri movimenti tranne che con l'aiuto del telecomando. Sembra il meccanismo perfetto che libera dalla fatica fisica, rappresenta l' esplosione del corpo in macchina. Fino a quando il corpo contenuto all'interno del meccanismo si auto-comanda l'incontro tra carne e tecnologia é perfetto; nel momento in cui il telecomando viene azionato dall'esterno la donna perde il potere di autocontrollo. Il corpo é prigioniero di se stesso, diviene luogo di confinamento come nella performance Sysiphe.
Sterbak tratta l'estetica del corpo umano in movimento e soprattutto dell'imprigionamento come metafora dell'esistenza. Sempre ancora continuando sul tema della donna e dell'imprigionamento crea una struttura metallica composta da cinghie dentro la quale una donna vestita in maniera ottocentesca canta, per dimostrare appunto la mancanza di autonomia femminile e il proprio imprigionamento. In un'altra opera, Jana manifesta appunto tale stato, in Distraction, inscenata all'interno di uno spazio pubblico, due coppie sedute al tavolo in un ristorante. Gli uomini sono vestiti in tenuta da sera mentre una delle due donne ha un vestito in cui le maniche sono congiunte, il che gli impedisce di usare le mani mentre l'altra donna porta una camicia trasparente in cui fuoriescono dei peli. Durante la cena, uno dei due uomini aiuta la propria partner a mangiare quella in cui le mani sono imprigionate. Le due donne simulano due condizioni che sono culturalmente accettate la donna che ha l'handicap delle mani simboleggia la presunta mancanza dì autonomia senza figura maschile, mentre l'altra donna che porta la camicia villosa, simboleggia una presunta virilità come codice di indifferenza dovuto al fatto di essere maschio.