I vitelloni

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I VITELLONI

Anno

1953 d.C.

Luogo

Italia

Autore

Fellini Federico

Descrizione

I protagonisti sono cinque amici che da sempre trascorrono le ore bighellonando oziosamente per le vie del borgo, e ripromettendosi, un giorno o l’altro, di andare lontano. Loro sono Moraldo, inquieto e sensibile, Riccardo, un fanciullone con una bella voce da cantante, Leopoldo, un sognatore che insegue un’irragiungibile gloria letteraria, Alberto, che ama la burla, non manca di piccole vigliaccherie ed è attaccato alla mamma, Fausto, il latin lover del gruppo. I cinque passano le loro giornate bighellonando, organizzando scherzi, parlando di donne e sognando viaggi ed avventure. E dopo l’oziosa giornata non riescono a far altro che tornare a casa un po’ divertiti ed un po’ immalinconiti come tutte le sere. Durante la festa balneare di fine stagione (in cui Riccardo ha l’occasione di esibire le sue modeste doti canore) salta fuori che la sorella di Moraldo, Sandra, appena eletta Miss Sirena 1953, è incinta di Fausto, il rubacuori della compagnia. Sebbene Fausto cerchi di scappare, viene obbligato dal padre al matrimonio riparatore. E così si trova, suo malgrado, ad avere una moglie, una famiglia ed un lavoro. Ma i nuovi impegni non gli impediscono di rimanere un vitellone incallito. In lui non è cambiato niente e continua a sognare l’avventura e la trasgressione amorosa. Giunge l’inverno e tutto procede come sempre: Alberto si atteggia a uomo di mondo ma è un bambinone che non riesce ad allontanarsi dalle gonne della mamma; Leopoldo scrive commedie inedite e mai rappresentate; Moraldo sogna di andare a Roma e fa amicizia con un piccolo ferroviere. Rientrato dal viaggio di nozze, Fausto viene assunto, suo malgrado, in un negozio di oggetti sacri, ma fa il galletto con la moglie del principale e viene licenziato. Si vendica rubando la statua di un angelo con l’aiuto di Moraldo, ma non riesce a smerciarla e se non fosse per l’intervento del padre finirebbe in galera. Con la primavera arriva la nascita del figlioletto di Sandra e Fausto, ma quest’ultimo ha un’avventura con la soubrette di una compagnia di avanspettacolo (mentre Leopoldo cerca di rifilare uno dei propri copioni al capocomico omosessuale). Sandra così fugge di casa con il bimbo: si teme per la sua vita e questo smuove, almeno per qualche ora la coscienza di Fausto che rinuncia all’ennesima avventura e si fa in quattro per ritrovare la moglie. Tutto finisce bene ma nella vita dei vitelloni ogni cosa resta come prima, come se nulla fosse accaduto. La vita continua tra sogni e giochi e l’unico che un mattino si recherà alla stazione e partirà per davvero sarà Moraldo. Il film portava il segno di un regista che stava sperimentando un nuovo tipo di racconto. Più che narrare una vicenda, l’autore affrontò la descrizione di un ambiente attraverso un’articolazione a grandi blocchi episodici che si svolgevano dalla fine di un’estate all’inizio di quella successiva. I capitoli principali in cui si divideva il film erano quattro, suddivisi in un gran numero di situazioni secondarie: il primo capitolo raccontava il matrimonio riparatore di Fausto, che aveva messeo incinta Sandra, la sorella del suo amico Moraldo. Il secondo descriveva la vita quotidiana degli altri vitelloni durante il viaggio di nozze di Sandra e Fausto. Nel terzo assistiamo al fallimento dello svogliato tentativo di Fausto di sistemarsi come commesso presso un negozio di arredi sacri. Ed infine nel quarto capitolo c’era il passaggio della compagnia di varietà implicante l’ennesimo tradimento di Fausto con una simpatica soubrette napoletana. Il film riscopriva una condizione giovanile velleitaria e torpida in cui il cinismo si affiancava all’incapacità di affrontare responsabilmente i compiti dell’età adulta. Questa sorta di autobiografia di un gruppo di borghesi di provincia si snoda ora in episodi compiuti, ora restringendosi in una battuta, un’immagine, un particolare. Il fine era rendere la casualità accidiosa di una serie di giornate vuote, tra gesti futili e sogni puerili, scoppi di ilarità e sfoghi di autocommiserazione, sbalordimenti assorti e delusioni cocenti. Il racconto si disperdeva fra due piani rappresentativi, la crisi storica di una generazione e la crisi generale dell’esistenza. Uno dei punti di forza del film era il personaggio di Alberto: il più arrogante e sfrontato, il meno tormentato da assilli e rimorsi, il più testardamente solo. Il suo contraltare era Fausto, anche lui gran fannullone e donnaiolo, che si redimerà a causa delle lacrime della moglie, sposata per forza dopo averla messa incinta e, poco dopo le nozze, già tradita. Sullo stimolo della figura di Fausto prende corpo una sorta di rimpianto per i vecchi valori domestici, incarnati dai padri di famiglia, forse maneschi ma dotati di un’onestà ammirevole come il loro buon senso. Beninteso che Fellini non intendeva esprimere una nostalgia del passato, ma cercava piuttosto di proiettarla nel futuro, attribuendole un connotato di nuova socialità. Questo tipo di sentimento era incarnato alla perfezione da un terzo personaggio, Moraldo, che resta però ai confini dell’inespresso, con la sua pensosità romanticamente trasognata. Accanto a lui un piccolo ferroviere, tenero rappresentante del mondo del lavoro, attraverso il quale Moraldo sentirà dentro di sé un rimprovero e deciderà così di abbandonare gli amici sfaticati partendo per la città: la fuga dalla provincia assume l’aspetto non di un’evasione dalla realtà, ma piuttosto di una vittoria su sé stesso e l’impegno a trovare un miglior rapporto con gli altri. La conclusione ambigua confermava il carattere aperto del discorso felliniano: su questa linea si sviluppava la tecnica di coinvolgimento dello spettatore, destinata a rappresentare una costante nella successiva attività del regista. Gli elementi erano chiari: alla base un risentimento satirico che deformava in maniera grottesca i tratti dell’esperienza collettiva così da mettere a nudo la grettezza del conformismo quotidiano (era il Fellini esuberante e cattivo, spassoso ed amaro, a cui andavano riconosciuti dei notevoli meriti nel porre in maniera pittoresca l’ufficialità delle norme di comportamento borghesi); al centro la tendenza a curvarsi con trepidazione sull’umanità candida dei semplici, accarezzandone lo stupore di fronte al mondo e a sé stessi; al vertice il bisogno di trovare una strada per superare l’angoscia esistenziale, non una via che porti attraverso una meditazione riflessiva e neppure attraverso l’accettazione di un messaggio religioso, ma piuttosto che aderiva alla semplice realtà della vita, vissuta in un atto di fiducia e di amore. Dopo la sconcertante esperienza de Lo sceicco bianco, Federico non sembrava poi così tanto scosso dalle risposte negative di stampa e mercato. Non sembrava dare peso alla diminuzione di prestigio derivante da un nuovo fiasco: anzi, il nostro regista aveva acquistato nel tempo una serena sicurezza e si comportava come se fosse uscito da un successo. Nel 1953 Fellini aveva già pronto il copione della Strada ed intendeva realizzarlo a tutti i costi: il costo necessario fu accontentare i produttori con una commedia che non scontentasse il pubblico. Ecco così spuntare all’improvviso, da uno scambio di vedute con Ennio Flaiano , l’idea dei Vitelloni. Il film nacque di getto ed assunse un peso autobiografico evidente, anche se Federico in sé per sé non fu mai un vitellone: se ne andò molto prima di averne l’età. Il gruppo rievocato nel film si riferiva ad una comitiva della quale faceva parte anche il suo amico pittore Demos Bovini, e si trattava di giovanotti di almeno dieci anni più grandi, che portavano cappotti neri, cappelli da uomo, baffi e chiome ben curati. Un clan che mai avrebbe dato confidenza a Federico e all’amico Titta, adolescenti liceali. Anche se Fellini non si curò mai più di tanto del cinema degli altri, il film conteneva alcuni omaggi, probabilmente non casuali, a Chaplin: il piccolo ferroviere appariva nella notte fischiettando Io cerco la Titina, la canzone immortalata da Charlot in Tempi moderni; e nella sfilata dei carri allegorici si intravedeva, per un attimo, accanto a quello di Totò, il mascherone di Charlot. Il titolo era un neologismo derivante dal riminese vidlòn, termine che indicava i disoccupati della borghesia, ossia quei giovani sfaccendati che passavano il loro tempo oziando. Erano perlopiù di buona famiglia, o comunque avevano qualcuno che li manteneva. Spiegava Federico Fellini: “Chi li mantiene? Un padre, una madre, una sorella, una zia; una famiglia insomma, e in famiglia si mangia, si dorme, si è vestiti e si riesce anche a scroccare un po’ di soldi per le sigarette ed il cinematografo. Nessuno di loro sa bene cosa vorrebbe fare. I piccoli lavori, le piccole occupazioni che la cittadina di provincia potrebbe offrire alla loro scarsa preparazione, li disdegnano. Hanno fatto qualche studio ma non sono andati fino in fondo. Non hanno attitudini per nessuna cosa in modo speciale; aspettano sempre una lettera, un’offerta, una combinazione che li porti a Roma o a Milano per qualche incarico onorifico e redditizio; ed aspettando sono giunti, chi più chi meno, ai trent’anni, passando la giornata a fare discorsi e scherzetti da ragazzini; e brillano nei tre mese della stagione balneare la cui attesa ed i cui ricordi occupano tutto il resto dell’anno. Sono i disoccupati della borghesia, i figli di mamma, i “vitelloni””. Il titolo non fu molto gradito dai distributori, che ne avrebbero preferito uno più comprensibile. Ma non fu questo l’unico intoppo: sempre i distributori non gradivano la presenza di Alberto Sordi, all’epoca reputato odioso al pubblico e quindi dannoso per gli incassi del film. Fellini però lo impose, ma fu costretto a rinunciare al suo nome sui manifesti, curiosa contrarietà giacchè sarà proprio questo film a lanciare il comico romano. Ed inoltre, a dispetto delle diffidenze dei distributori, il film ebbe un notevole successo di pubblico sin dalla proiezione alla Mostra di Venezia, dove la giuria presieduta dallo scorbutico Eugenio Montale, un poeta che ha dichiarato di detestare il cinema come “fonte inevitabile di prostituzione e delinquenza”, gli assegnò un Leone d’argento. Dopo, I vitelloni trovò successo e diffusione mondiale tanto che un produttore offrì invano a Fellini “mari e monti” perché mettesse in scena un sèguito al femminile intitolato Le vitelline.