I cowboy del computer

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Autore: Antonio caronia

Tratto da: “I cowboy del computer”, L’europeo n. 31, 4 agosto 1990.

Anno: 1990

Testo dell'articolo'



Cyberpunk. Il termine è abbastanza ibrido da incuriosire, abbastanza brutto da avere successo, abbastanza preciso da permettere di capire, almeno a grandi linee, di che cosa si parla. Punk cibernetico allude, evidentemente, a un atteggiamento di trasgressione, di provocazione, che usa però strumenti tecnologici sofisticati, ha a che fare col rapporto dell'uomo con la macchina: s'intende, la macchina per eccellenza di questo tardo XX secolo, il computer. Il termine, coniato verso la metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti per indicare il gruppo di giovani scrittori che stava allora rivoluzionando la fantascienza, è rapidamente debordato verso altre arti, verso il sociale. Cyperpunk sono allora gli hacker che si beffano dei sistemi di sicurezza delle multinazionali, gli artisti multimediali che mettono in scena catastrofi così ben simulate da essere vere, i film sul crollo della civiltà come 1997: Fuga da New York, Blade Runner o Videodrome. In Italia l'attenzione a questo fenomeno comincia forse solo ora, ma tutto lascia pensare che si voglia rapidamente recuperare il terreno perduto. Paradossalmente (ma non tanto) è il mondo underground a esprimere interesse, più che i tradizionali lettori di fantascienza. Bifo, l'intellettuale bolognese che fu tra i teorici e gli ispiratori del movimento del 77, ha fatto uscire un libriccino della serie A/traverso che al titolo Cyberpunk fa seguire il succoso sottotitolo "Mitologie neuromantiche. Movimento comportamentale. Allucinazione telematica." Le edizioni Shake di Milano, responsabili della rivista underground "Decoder", annunciano Cyberpunk. Antologia di testi politici, curata da Raffaele Scelsi. A scorrerne il sommario si scopre (oltre a una visione nient'affatto tradizionale della politica) l'esistenza di una miriade di esperienze di gruppo che coniugano l'opposizione "esistenziale e resistenziale" (così si esprime "Decoder") con l'uso della tecnologia informatica, dalla California ad Amburgo a Barcellona. Il festival teatrale di Sant'Arcangelo ha affidato a "Decoder" un'intera sezione, all'interno della quale il 28 luglio si terrà un seminario sul cyberpunk, per fare il punto sul fenomeno in tutti i suoi aspetti: letterario, sociale, teorico. Non è la prima volta che attraverso gli occhiali della letteratura si riescono a leggere tendenze sociali altrimenti poco riconoscibili. Ma nel caso del cyberpunk sono gli stessi protagonisti a spingere su questa chiave di lettura. Bruce Sterling è il teorico del movimento a livello letterario, un movimento che è consistito più che altro in un gruppo di amici, di giovani scrittori scontenti di quello che la fantascienza era diventata all'inizio degli anni Ottanta e risoluti a cambiarla. Il loro manifesto fu l'antologia Mirrorshades (Occhiali a specchio), uscita nel 1986. Nell'introduzione a quel libro Sterling scriveva: "E' la prima volta che una generazione di scrittori di fantascienza non matura solo all'interno di una tradizione letteraria, ma in un mondo che è fantascientifico per davvero. Per questa generazione le tecniche della hard science fiction - l'estrapolazione, le conoscenze tecnologiche - non sono solo delle fonti di ispirazione per la scrittura, ma dei veri e propri strumenti per la vita quotidiana". Gli scrittori cyberpunk non disconoscono il loro debito verso la letteratura che li ha preceduti (e citano autori di fantascienza, primo fra tutti James Ballard, e autori mainstream come William Burroughs e Thomas Pynchon), ma insistono sul fatto che la loro ispirazione viene soprattutto da quanto accade attorno a loro. "Il termine cyberpunk" scrive ancora Sterling, "coglie qualcosa di cruciale per tutti gli anni Ottanta, l'integrazione del mondo high tech e della cultura pop, specialmente nel suo aspetto underground". Se gli occhiali a specchio sono stati il primo simbolo del movimento cyberpunk, l'idea più fortunata e folgorante è quella che viene dallo scrittore più dotato del gruppo, William Gibson: è l'idea del "ciberspazio", che domina i racconti della raccolta Burning Chrome (pubblicati in Italia da Urania come La notte che bruciammo Chrome) e i romanzi Neuromancer, Count Zero, Mona Lisa Overdrive, scritti fra il 1984 e il 1989 (già tradotto il primo, Neuromante, dalla Nord , e il secondo, Giù nel ciberspazio, da Mondadori, che sta preparando anche il terzo). Con il termine "ciberspazio" Gibson indica uno spazio virtuale, una matrice situata dall'altra parte del monitor del computer che ne contiene e ne organizza tutti i dati: a questo spazio possono accedere, muovendovisi dentro come se fosse reale, i "cowboy della consolle", veri e propri hacker del futuro che collegano la propria mente direttamente con il computer e manovrano così il software senza passare per la tastiera. Come gran parte dell'universo futuro di Gibson (che non è uno specialista di informatica e fino a qualche anno fa neppure usava il computer), anche questa idea deriva dalle sue osservazioni della vita quotidiana. "Il mio ciberspazio è simile a qualcosa che sta già succedendo" ha dichiarato una volta. "Guardate l'intensità e la fissità dei ragazzi che giocano a un videogame: c'è un flusso di particelle, qualcosa di simile a un circuito di feedback. Dei fotoni escono dallo schermo e entrano negli occhi del ragazzo, i neuroni si muovono nel suo cervello, fanno muovere le sue mani e gli elettroni si muovono nel computer in un certo modo. Ma altre volte, parlando con la gente che si occupa di computer, ho avuto la sensazione che tutti siano convinti dell'esistenza di qualcosa oltre lo schermo: certo, nessuno lo ammette, è più una sensazione che una convinzione razionale. Ecco, io mi sono limitato a mettere insieme tutto questo e a trarne qualche conseguenza". In effetti il ciberspazio ha già cominciato a migrare dalle pagine dei romanzi di Gibson nei laboratori delle aziende: sono le cosiddette "realtà virtuali", sistemi capaci di simulare dentro un computer degli insiemi di dati sensoriali coerenti che possono essere percepiti dall'utente ma non corrispondono a nessuna "realtà" in senso tradizionale: una sorta di mondo alla Roger Rabbitt, solo molto più convincente. Nella Silicon Valley diverse ditte sono già passate dalla fase dei prototipi alla produzione regolare. Autodesk, una di queste ditte, che tra l'altro ha irritato Gibson registrando un marchio "Cyberspace", ha costruito una bicicletta che consente a chi la inforca di girare per una città immaginaria, e addirittura, se il ritmo della pedalata è sufficientemente elevato, di alzarsi in volo. Ma il prodotto più sorprendente è a tutt'oggi RB2 (Reality Built for Two, cioè "realtà costruita per due"), prodotto al prezzo di 250.000 $ dalla Visual Programming Language di Jaron Lanier: una coppia di utenti equipaggiata con un casco e un paio di "data-guanti" può esplorare da ferma gli ambienti più strani, guardarli da diverse angolazioni, raccogliere oggetti, spostarli. Velocissimo il computer registrerà i movimenti degli occhi, della testa, delle mani, delle dita, e fornirà i necessari stimoli sensoriali, tutti rigorosamente "virtuali". Nati dalle ricerche spaziali della NASA, questi dispositivi trovano oggi applicazione soprattutto per l'addestramento degli astronauti, ma domani serviranno per l'addestramento e la comunicazione di persone affette da lesioni sensoriali, e dopodomani saranno forse i videogiochi degli adolescenti. In tutti i casi le "realtà virtuali" partecipano di quella tendenza della società post-industriale alla commistione di reale e immaginario che certa narrativa di fantascienza (Dick e Ballard, per esempio, prima del cyberpunk) ha anticipato. Si tratta di una combinazione reale/immaginario ben diversa da quella che opera, per esempio, il fantasy: e non è certo casuale che i romanzi di Gibson si avviino a diventare, per la gioventù contestatrice di oggi, quello che fu per gli hippies negli anni Settanta Il signore degli anelli di Tolkien. Se la forza della "Terra di mezzo" immaginata dall'autore inglese si basava tutta sulla sua capacità di simboleggiare degli archetipi comportamentali dell'uomo senza alcun riferimento esteriore alla realtà contemporanea, il mondo del ciberspazio al contrario fa giocare gli archetipi all'interno di una realtà che il lettore percepisce come molto simile alla sua: un futuro, certo, ma il nostro futuro, come può immaginarselo un giovane visionario ma con gli occhi bene aperti su tutto quanto succede attorno a lui. Così può essere irritante per qualche lettore l'aparizione delle divinità voodoo in Giù nel ciberspazio: ma questo è un esempio caratteristico del modo di lavorare di Gibson, che utilizza figure del mito o della religione (diciamo di un mondo pre-industriale, per semplificare) per simboleggiare certi effetti che la tecnologia ha sul nostro immaginario. E un ruolo analogo ha il riferimento all'arte contemporanea (Duchamp in Neuromante o Cornell in Giù nel ciberspazio), un procedimento che era già stato messo in opera da Ballard nelle sue opere degli anni Sessanta. Se dal punto di vista letterario, insomma, il cyberpunk appare (se non altro per gran parte dei suoi riferimenti) un episodio rilevante del romanzo postmoderno, se dal punto di vista del costume risente dello sviluppo e della diffusione delle nuove tecnologie, dal punto di vista sociale e politico esso è forse l'avvisaglia di una nuova fase di radicalismo. Ecco perché Tymothy Leary ha arruolato i cyberpunk nella schiera dei ribelli che, da Prometeo in poi, hanno combattuto per il libero pensiero. Ecco perché riviste futurologico-tecnologiche underground, come Reality Hackers, scrivono:"I cyberpunk sono i difensori e i guardiani delle libertà individuali: per questo il Grande Fratello fa di tutto per schiacciarli". Anche l'undergound italiano, come quello americano, sembra trovare nei romanzi di Gibson uno strumento di identità culturale. Raffaele Scelsi, organizzatore del seminario di "Decoder" a Santarcangelo, non ha dubbi: "Il cyberpunk è uno degli strumenti più forti che si siano offerti, dagli anni Sessanta ad oggi, per la costruzione dell'immaginario collettivo. Il legame che si sta creando fra l'uso di tecnologie avanzate e i tradizionali luoghi di alterità sociale, come i centri sociali, produce un fenomeno molto interessante. Il rapporto fra l'high tech e la cosidetta 'junk modernity', la modernità di scarto che finora ha esaurito le possibilità del movimento di opposizione, è la strada migliore per costruire una prospettiva che non ci condanni alla ripetizione di vecchi modelli teorici e politici". Gli emarginati protagonisti dei romanzi di Gibson, genii del computer che non si integrano nel sistema, stanno per replicarsi nella realtà?