Learning the Right Lesson: differenze tra le versioni
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Il fatto che la convinzione che la conoscenza sia necessariamente connessa alla libertà non sia stata quasi mai messa in discussione è dovuto, in parte, alla sua genealogia. “Gli antichi stoici e i più moderni razionalisti sono d'accordo con i cristiani su questo argomento‿. E “saprai la verità e la verità ti renderà libero‿. Come Isaia Berlin sottolineava nel 1968, “non si tratta di un'affermazione scontata, neanche su basi empiriche‿. Si tratta, scriveva Berlin, di “una delle convinzioni meno plausibili che sia mai stata accolta da pensatori profondi e influenti‿ (From Hope and Fear Set Free‿, 1968) Oltre ad essere erronea, tutto l'apparato retorico che la accompagna, la trasparenza, la libertà , l'accesso, la partecipazione, e anche la creatività, ha finito per costituire la fondazione ideologica del “capitalismo comunicativo‿, trasformando le micropolitiche omeopatiche dei media tattici nell'ala sperimentale delle cosiddette “industrie creative‿, “corroborando così il modo temporale del capitale post-fordista: l' “a-breve-termine‿(Ned Rossiter & Geert Lovink, “Dawn of the Organised Networks‿, su [http://www.nettime.org]) | Il fatto che la convinzione che la conoscenza sia necessariamente connessa alla libertà non sia stata quasi mai messa in discussione è dovuto, in parte, alla sua genealogia. “Gli antichi stoici e i più moderni razionalisti sono d'accordo con i cristiani su questo argomento‿. E “saprai la verità e la verità ti renderà libero‿. Come Isaia Berlin sottolineava nel 1968, “non si tratta di un'affermazione scontata, neanche su basi empiriche‿. Si tratta, scriveva Berlin, di “una delle convinzioni meno plausibili che sia mai stata accolta da pensatori profondi e influenti‿ (From Hope and Fear Set Free‿, 1968) Oltre ad essere erronea, tutto l'apparato retorico che la accompagna, la trasparenza, la libertà , l'accesso, la partecipazione, e anche la creatività, ha finito per costituire la fondazione ideologica del “capitalismo comunicativo‿, trasformando le micropolitiche omeopatiche dei media tattici nell'ala sperimentale delle cosiddette “industrie creative‿, “corroborando così il modo temporale del capitale post-fordista: l' “a-breve-termine‿(Ned Rossiter & Geert Lovink, “Dawn of the Organised Networks‿, su [http://www.nettime.org]) | ||
L'efficace conquista neoliberista della retorica della “libertà‿ e della “creatività‿ ha riaperto una vecchia linea di faglia che la prima ondata di media tattici aveva fatto in modo di colmare: la linea di faglia che divideva gli artisti dagli attivisti politici. Il teorico e attivista [[Brian Holmes]] descriveva le sue origini come risalenti (come minimo) alle cultural politics degli anni 60. Descriveva un gap tra “ la tradizionale classe lavoratrice preoccupata della giustizia sociale e l'impegno della nuova sinistra per l'emancipazione individuale, il pieno riconoscimento e l' espressione delle identità particolari‿. Seguendo questa logica, i responsabili delle fondazioni aziendali e i think tank degli anni '80 e '90 hanno felicemente immesso sul mercato variazioni di antichi valori controculturali, rendendo gli interventi degli artisti (inclusi i tattici dei media) profondamente (anche se involontariamente) de- politicizzati. Holmes va oltre, descrivendo (o asserendo, non sono sicuro) una critica secondo cui “l'esplorazione narcisistica del sé, della sessualità e dell'identità sono diventate il leitmotiv della cultura urbana borghese. La libertà e la licenza artistica hanno portato, in effetti, alla neoliberizzazione della cultura‿(Brian Holmes, “The Scandal of the Word Class: A Review of David Harvey, A Brief History of Neoliberalism (Oxford UP 2005). Il tono puritano e autoritario di questa analisi è un po' snervante. In realtà, questa tendenza potrebbe portare ad un filisteismo grossolano ed opprimente, e potrebbe segnalare che stanno arrivando tempi peggiori. | L'efficace conquista neoliberista della retorica della “libertà‿ e della “creatività‿ ha riaperto una vecchia linea di faglia che la prima ondata di media tattici aveva fatto in modo di colmare: la linea di faglia che divideva gli artisti dagli attivisti politici. Il teorico e attivista [[Brian Holmes]] descriveva le sue origini come risalenti (come minimo) alle cultural politics degli anni 60. Descriveva un gap tra “ la tradizionale classe lavoratrice preoccupata della giustizia sociale e l'impegno della nuova sinistra per l'emancipazione individuale, il pieno riconoscimento e l' espressione delle identità particolari‿. Seguendo questa logica, i responsabili delle fondazioni aziendali e i think tank degli anni '80 e '90 hanno felicemente immesso sul mercato variazioni di antichi valori controculturali, rendendo gli interventi degli artisti (inclusi i tattici dei media) profondamente (anche se involontariamente) de- politicizzati. Holmes va oltre, descrivendo (o asserendo, non sono sicuro) una critica secondo cui “l'esplorazione narcisistica del sé, della sessualità e dell'identità sono diventate il leitmotiv della cultura urbana borghese. La libertà e la licenza artistica hanno portato, in effetti, alla neoliberizzazione della cultura‿(Brian Holmes, “The Scandal of the Word Class: A Review of David Harvey, A Brief History of Neoliberalism (Oxford UP 2005). Il tono puritano e autoritario di questa analisi è un po' snervante. In realtà, questa tendenza potrebbe portare ad un filisteismo grossolano ed opprimente, e potrebbe segnalare che stanno arrivando tempi peggiori. | ||
− | L'appello di [[Berardi "Bifo" Franco|Franco Berardi "Bifo"]] al meeting di Senigallia affinché le [[Telestreet]] (e per estensione tutti gli artisti/attivisti) ampliassero le loro ambizioni viene sempre di più accolto. C'è un numero crescente di ispirazioni a cui possiamo guardare: il successo degli [[Yes | + | L'appello di [[Berardi "Bifo" Franco|Franco Berardi "Bifo"]] al meeting di Senigallia affinché le [[Telestreet]] (e per estensione tutti gli artisti/attivisti) ampliassero le loro ambizioni viene sempre di più accolto. C'è un numero crescente di ispirazioni a cui possiamo guardare: il successo degli [[Yes men]] nell'ottenere la distribuzione nei cinema mainstream, i contributi globali ad “alto voltaggio‿ di [[Yomango]], i movimenti di protesta e le vaste iniziative di Witness.org [http://www.witness.org], che prevedono la fornitura di media diy ad attivisti indigeni come campagna parallela ai processi legali per i diritti umani. Questi e molti altre interventi sottolineano la crescente volontà di globalizzare strategicamente il dissenso. Questo processo è stato accompagnato da una crescente volontà di abbandonare il culto dell'effimero – una delle parole d'ordine dei [[media tattici]]. Al posto della guerrilla attivista mordi e fuggi, ora si richiede l'esatto opposto, la “durata‿. È il momento delle responsabilità a lungo termine e degli impegni più profondi nei confronti delle persone e delle organizzazioni che ruotano intorno alle questioni contestati. |
Uno degli esempi più straordinari di questa linea di sviluppo è Women on Waves [http://www.womenonwaves.org], una fondazione olandese ideata da Rebecca Gomperts, studentessa di medicina all'Università di Amsterdam e specializzata come dottore abortista, che ha seguito corsi di arti visive alla Rietveld Academy e di navigazione alla Enkhuizen Zeevartschool. Il successo più celebrato di Women on Waves è l'Abortion Boat, una grande clinica galleggiante che sfrutta tatticamente la legge marittima. La nave viene ancorata fuori dalle acque territoriali dei paesi dove l'aborto è illegale; sull'Abortion Boat le donne possono ricevere informazioni e abortire, grazie ad un team di medici olandesi (inclusa la dottoressa Gomperts), perché la nave è legalmente in territorio olandese. Quindi, le donne sono assistite attivamente e le organizzazione locali sono supportate nella loro lotta per la legalizzazione dell'aborto. | Uno degli esempi più straordinari di questa linea di sviluppo è Women on Waves [http://www.womenonwaves.org], una fondazione olandese ideata da Rebecca Gomperts, studentessa di medicina all'Università di Amsterdam e specializzata come dottore abortista, che ha seguito corsi di arti visive alla Rietveld Academy e di navigazione alla Enkhuizen Zeevartschool. Il successo più celebrato di Women on Waves è l'Abortion Boat, una grande clinica galleggiante che sfrutta tatticamente la legge marittima. La nave viene ancorata fuori dalle acque territoriali dei paesi dove l'aborto è illegale; sull'Abortion Boat le donne possono ricevere informazioni e abortire, grazie ad un team di medici olandesi (inclusa la dottoressa Gomperts), perché la nave è legalmente in territorio olandese. Quindi, le donne sono assistite attivamente e le organizzazione locali sono supportate nella loro lotta per la legalizzazione dell'aborto. | ||
A lato degli interventi pratici dell'Abortion Boat, Women on Waves utilizza anche l'arte e il design come parte integrante della campagna globale per il diritto all'aborto. Ad esempio l'installazione I had an Abortion consiste di magliette appese su un appendi abiti di filo spinato; sulle magliette è stampata la frase “ho abortito‿ in tutte le lingue europee. Sul loro sito può essere trovato un diario di una donna brasiliana che parla della sua esperienza nel vestire una di queste magliette. Il suo racconto dimostra come i modi di discorso politico esplorati dai pionieri dei media tattici sono tuttora validi. Infatti, il messaggio stampato su queste magliette (“I had an abortion‿) è preferibile a qualcosa come “legalizzare l'aborto‿, che sarebbe sembrata una forma primitiva di agit prop. “La funzione di queste magliette‿ – scrive la donna brasiliana - “non è quella di trasformarmi in bersaglio. Non è questo il punto: si tratta di dare supporto a tutte quelle donne senza volto. Come dire: non ti preoccupare, va tutto bene, tu vai bene‿. Questo adempie a una delle prime direttive dei classici [[media tattici]], che, al contrario del tradizionale agit prop, son pensati per invitare al dialogo. | A lato degli interventi pratici dell'Abortion Boat, Women on Waves utilizza anche l'arte e il design come parte integrante della campagna globale per il diritto all'aborto. Ad esempio l'installazione I had an Abortion consiste di magliette appese su un appendi abiti di filo spinato; sulle magliette è stampata la frase “ho abortito‿ in tutte le lingue europee. Sul loro sito può essere trovato un diario di una donna brasiliana che parla della sua esperienza nel vestire una di queste magliette. Il suo racconto dimostra come i modi di discorso politico esplorati dai pionieri dei media tattici sono tuttora validi. Infatti, il messaggio stampato su queste magliette (“I had an abortion‿) è preferibile a qualcosa come “legalizzare l'aborto‿, che sarebbe sembrata una forma primitiva di agit prop. “La funzione di queste magliette‿ – scrive la donna brasiliana - “non è quella di trasformarmi in bersaglio. Non è questo il punto: si tratta di dare supporto a tutte quelle donne senza volto. Come dire: non ti preoccupare, va tutto bene, tu vai bene‿. Questo adempie a una delle prime direttive dei classici [[media tattici]], che, al contrario del tradizionale agit prop, son pensati per invitare al dialogo. |
Versione attuale delle 11:42, 20 Ago 2009
Autore: David Garcia
Tratto da: Mute - Culture and Politics after the net
Titolo Originale: Learning the Right Lesson
Traduzione di: Fiammetta
Anno: 2006
Imparare la lezione giusta
Cosa è successo ai media tattici? David Garcia, uno tra i primi a definire questo "genre" nato all'inizio degli anni '90, prende la recente pubblicazione di DIY Survival, del gruppo di artisti/attivisti C6 come spunto per riflettere sullo stato dell'arte. Preoccupato della cannibalizzazione commerciale dei media tattici, David Garcia identifica il bisogno di associare alle pratiche effimere del mordi e fuggi strutture resistenti permanenti.
Nel 2005, il gruppo londinese di artisti/attivisti C6 ha pubblicato, in concomitanza con la mostra Sold Out, un breve saggio intitolato DIY Survival. Nell'introduzione i C6 dichiarano che il loro scopo è "produrre una guida degli strumenti tattici per una pratica artistica collettiva". Il risultato è un amalgama di pezzi e bocconi, che spazia dai contenuti seri e utili fino a quelli autoironici e francamente triti. Questo materiale è stato giudiziosamente diviso in tre sezioni: DIY Theory, DIY How To e, per finire, DIY Case Studies. La discontinuità del libro potrebbe in parte derivare dalla decisione di minimizzare l'intervento editoriale. Non è chiaro se ci sia stata o meno una selezione. L'introduzione ci racconta che i contenuti sono il risultato di un open call comunicata ad un certo numero di mailing list amiche, ma non è chiaro se ci sia stata un'ulteriore selezione o un intervento editoriale. Ci viene solo detto che i C6 sono stati "sommersi da una marea di risposte" e che hanno "deciso che il loro compito sarebbe stato di lasciar fare al caso".
Sembra chiaro fin dal principio che questo libro si riferisce a quell'area di pratiche che, una decina di anni fa, è stata battezzata da alcuni di noi media tattici, anche se i C6, saggiamente, evitano questa definizione, già diventata pressoché istituzionalizzata. Malgrado ciò, nel libro sono presenti molti aspetti di ciò che potrebbe essere descritto come media tattico.
In origine, il termine è stato coniato per identificare e descrivere un movimento che occupava una terra di nessuno ai confini tra l'arte sperimentale dei media, il giornalismo e l'attivismo politico: una zona nata, in parte, grazie alla diffusione di massa di una nuova, potente e flessibile generazione di media. Questa costellazione di strumenti e discipline era anche accompagnata da un peculiare insieme di negazioni: la negazione dell'obiettività del giornalismo, della disciplina e della strumentalizzazione dei movimenti politici tradizionali, e infine del bagaglio mitologico e dell'atavico culto della personalità diffusi nel mondo dell'arte. Queste negatività, insieme ad un amore per le collaborazioni veloci, effimere ed improvvisate, ha dato a questa cultura il suo spirito e il suo stile peculiari, ed ha aiutato ad esplorare nuovi livelli di imprevidibilità e di instabilità, sia nelle politiche culturali sia nel paesaggio mediatico. Ma questo è successo tempo fa, e queste pratiche sono diventate da tempo parte integrante della dieta mediatica. Quindi si pone il problema se il DIY Survival di C6 ci proponga o meno qualcosa di nuovo. Qualunque sia la risposta, dovrebbe almeno darci la possibilità di fare l'inventario e di chiederci se qualcuna di queste pratiche ha ancora valore e credibilità in un mondo che ha contribuito a cambiare.
La copertina di DIY Survival è acuta e divertente, e suscita immediatamente delle aspettative. Si tratta di un'intelligente parodia di un kit di modellismo ‘Airfix’, e propone una di quelle onnipresenti cornici di plastica a cui erano attaccate le componenti dei modellini degli elicotteri Apache e dei carri armati Sherman. Ma, in questa versione, troviamo le miniature che servono a costruire l'odierno combattente per la libertà dei media: telecamera, portatile, passamontagna, bomboletta spray, eccetera. Anche se la copertina del libro può competere con tutte le altre sull'espositore delle riviste, una volta dentro siamo trasportati indietro in un ghetto : il mondo delle fanzine degli anni '70. C'è addirittura un ironico (spero) accenno ai padrini punk della cultura DIY, con innumerevoli immagini di spille che sembrano tenere insieme i pezzi eterogenei di contenuti. Naturalmente si tratta di un ammiccamento d'intesa, un desiderio di recuperare l'etica fast and furious del punk utilizzando la tecnologia print on demand del XI secolo. Il problema è che il DIY Survival dei C6 non regge il confronto con le arrabbiate fiammate visive del punk. Non è che questo senso del fallimento squisitamente inglese, questa follia e quest'edonismo insolente siano scomparsi: ma è più facile trovarli sul sito del NeasdenControlCenter [1]o guardando un episodio dei Black Books su Channel 4, o addirittura ascoltando i Baby Shambles.
Ma se cerchiamo di chiudere un occhio sui problemi stilistici (e non è facile), possiamo trovare alcune cose utili e informative, in particolare nella sezione DIY How To, che include dei mini-manuali hackers per costruire una rete Linux, per liberare un terminale e per creare un nodo wireless. Ma troppo spesso gli argomenti interessanti sono indeboliti da scappatoie dozzinali e autoironiche, come la guida fotografica ‘How to be a Citizen Reporter’ o la risibile cartolina da ritagliare per ‘Robot Buddies’. Questo effetto di accumulazione suggerisce poco più di una microcultura isolata e autoreferenziale, proprio come il mondo delle gallerie che si propone di indebolire.
L'opzione omeopatica
Nella DIY Theory section ci sono alcuni momenti validi, ma la sezione sarebbe stata molto più accessibile (o quantomeno leggibile) grazie ad una presenza editoriale più attiva. Per esempio, è lodevole la presenza del particolare stile retorico dei midia tactica brasiliani nell'articolo di Hernani Dimantas Linkania – The Hyperconnected Multitude. Ma il valore del testo è indebolito dai troppi riferimenti non spiegati, come quello a Globo, il gigante mediatico brasiliano. A livello di dettaglio si tratta di un argomento futile, ma in realtà in mancanza di contesto chiaro si perde l'interpretazione cannibalistica peculiarmente brasiliana dei media tattici. Saggiamente, il libro prende avvio con il suo articolo più coerente ed argomentato, Of Avant Gardes and Tail Ends di Verhagen. Questo saggio vale la pena di essere esaminato da vicino, perché pur non essendo precisamente un manifesto del DIY è sicuramente una discussione sul suo nucleo teorico, e cioè sul ruolo sovrano dell'arte come agente sovversivo. Per larga parte il testo è una breve storia della graduale erosione del morso sovversivo dell'avanguardia. Verhagen propone distinzioni utili ma troppo semplicistiche, come quella tra l'avanguardia “critica‿ e quella “ermetica‿. Uno dei punti più efficaci è l'identificazione del processo per cui l'arte ha abbandonato ogni aspirazione a rappresentare l'utopia, se non in forma esclusivamente ironica. “L'immaginario utopico‿, scrive, “un tempo concepito da Signac e Leger come forza per il rinnovamento sociale, ora è territorio esclusivo di Benetton e Disney. Quanto spesso, nell'arte contemporanea, le visioni utopiche sono rappresentate senza ironia?‿ Questo è solo uno degli argomenti che Verhagen mobilizza per insistere sul fatto che l'arte critica e mediatica, se inserita nei contesti artistici tradizionali, è priva di senso, dal momento che il potere reale ora risiede altrove. Così Verhagen descrive il paesaggio contemporaneo : “I film di Hollywood, le pubblicità sulle riviste, i successi musicali: tutto ciò costituisce una forza più potente delle sale da concerti e dei musei; questi fenomeni rappresentano più fedelmente i valori dominanti di oggi, e sono più adatti a cooptare il lavoro delle avanguardie: dopotutto, la mercificazione è più efficace della canonizzazione‿. Negli ultimi paragrafi del suo saggio, Verhagen sostiene lo spiegamento delle “strategie omeopatiche‿ di Frederic Jameson, che sembrano consistere in un processo foucoltiano mirato a “smascherare‿ il potere: una forma di ideologia critica portata avanti attraverso le immagini. È difficile definire la differenza tra le strategie omeopatiche e l'approccio diventato familiare a una parte di pratiche artistiche a partire dalla prima ondata di post-modernismo critico degli anni '70 e '80, quando i fenomeni culturali di massa venivano esaminati e riprodotti per “rivelare i loro meccanismi interni, i loro mezzi e i loro obiettivi‿. Verhagen prosegue sostenendo che “i lavori omeopatici sono più difficili da appropriare per la cultura dominante perché, in parte, le appartengono già‿. Sembrerebbe molto giusto; ma in realtà un tale approccio, ben lontano dal rappresentare l'ultimo grido in fatto di sovversione, sembrerebbe produrre meri epifenomeni di capitalismo comunicativo non solo tollerati, ma consumati con soddisfazione. Non che le politiche culturali o informative non siano importanti; è solo che, fuori da un ampio contesto e da una strategia significativa, non bastano. Nel suo fervido appello finale Verhagen dichiara che “le grandiose sovversioni del diciannovesimo secolo sembrano quasi pittoresche; le tattiche omeopatiche sono sicuramente più efficaci‿. Credo che sia esattamente il contrario. È solo quando la critica ideologica delle immagini (o dei codici) viene utilizzata come parte di una strategia più generale dell'azione diretta che le cose cominciano a muoversi. Il caso dell'utilizzo di tattiche visuali del gruppo di attivisti anti-AIDS CUT UP negli anni '90 sono una classica dimostrazione di come le politiche culturali possano avere un potere reale.
Il Dilemma di Telestreet
Il report sul movimento delle Telestreet italiane di Slavina Feat (misteriosamente inserito nella sezione DIY How To ) esemplifica le limitazioni del libro citando, allo stesso tempo, un esempio istruttivo. Il report riguarda il movimento italiano microtelevisivo delle Telestreet e l'organizzazione sorella New Global Vision [2], un collettivo di hackers Italiani che hanno utilizzato BitTorrent per disseminare sulla rete un archivio di video politici, aiutando Telestreet a distribuire a livello nazionali dei contenuti locali. Il report di Slavina Feat è un'altra delle opportunità perdute di DIY Survival. Si limita a riciclare i tormentoni delle Telestreet, che hanno girato per un paio d'anni. Fallisce nel porre le domande fondamentali a proposito di questo movimento: per cominciare, qual è lo stato attuale del network? Sta crescendo, si sta restringendo o, (come sospetto, ma non ne sono sicuro) ha raggiunto il suo apice due anni fa? Le Telestreet sono in declino o, peggio, stanno attraversando un processo di frammentazione sotto il peso delle contraddizioni interne? Di sicuro un libro con una agenda critica dovrebbe aspirare a qualcosa di più che a lanci promozionali come questo. L'esempio delle Telestreet è importante perché incarna alcune delle scelte più radicali per chi è impegnato nei media tattici. Questi dilemmi erano già visibili in un incontro delle Telestreet che ha avuto luogo a Senigallia nel 2004. Questo meeting ha coinciso con il momento in cui l'abominevole legge Gasparri è stata approvata dal parlamento italiano, una legge che ha permesso a Berlusconi di consolidare il suo dominio sul mediascape italiano. Niente esemplifica il legame tra potere mediatico e potere politico più crudamente del fenomeno Berlusconi e dell'approvazione di questa legge. Dato che questo è stato un momento determinante per le Telestreet, la scelta di tenere il meeting a Senigallia, una piccola località marittima, è stata sorprendente. Anche se ci sono state delle buone ragioni per questa scelta, Franco Berardi "Bifo" ha guidato le voci dissidenti, sostenendo che le Telestreet avevano perso il treno e che si doveva urgentemente alzare la posta in gioco e focalizzare le proprie energie per mobilitare una resistenza contro il regime berlusconiano. Enfatizzando gli interventi espressivi o artistici e i micro media a spese del confronto diretto, Telestreet stava scivolando nell'irrilevanza. Franco Berardi "Bifo" ha terminato il suo allarmante discorso dichiarando che “l'ultima cosa che dovremmo fare è accettare la nostra misera marginalità‿.
L'antica frattura
Questo aneddoto di Telestreet illumina tre tendenze interconnesse che sono emerse con i media tattici negli anni '90. In primo luogo c'è un rigetto diffuso dell'omeopatico e del micro-politico, in favore di ambizioni di proporzioni globali, accompagnate da una volontà di oltrepassare la disobbedienza civile elettronica e semiotica per impegnarsi nell'azione diretta, nel “reclaim the street‿. Questa situazione è quasi totalmente dovuta al potente movimento anticapitalista che (dalla sua prospettiva) ha trasformato i media tattici nel progetto Indymedia. Ma c'è anche una terza tendenza, meno visibile e più problematica, una tendenza verso la polarizzazione interna. Tale polarizzazione è basata su una profonda divisione che si è creata tra molti degli attivisti impegnati nei movimenti politici e gli artisti o i teorici che, anche se continuano a vedersi come radicali, conservano un credo nell'importanza delle politiche culturali (e dell'informazione) in ogni movimento per la trasformazione sociale. Anche se ho poco più dell'esperienza personale e di alcune prove aneddotiche per proseguire in questa argomentazione, mi sembra di poter individuare una significativa crescita dei sospetti e una (spesso) aperta ostilità degli attivisti nei confronti della presenza dell'arte e degli artisti nel “movimento‿, in particolare per quelle opere che non possono essere immediatamente strumentalizzate dai “nuovi soldati della sinistra‿ Ma cos'è cambiato rispetto agli anni '90, cosa ha causato queste tendenze? Per capirlo dobbiamo fare mente locale sulle peculiari condizioni storiche di quell'epoca. La prima fase dei media tattici a ri-iniettato una nuova energia nel progetto delle “politiche culturali‿ (cultural politics) che si andava sempre più indebolendo. I media tattici hanno fuso la politica dell'informazione radicale e pragmatica degli hackers con la pratiche ormai consolidate basate sulla critica della rappresentazione. I media tattici erano anche parte (e presumibilmente compromessi da) la più ampia rivoluzione di internet e delle comunicazioni negli anni ‘90 che, come la musica negli anni 60, ha agito da solvente universale non solo dissolvendo i confini tra le discipline, ma anche i confini che separavano le formazioni politiche già da tempo definite. Il potere che alcuni di noi hanno attribuito a queste nuove “politiche mediatiche‿ potrebbe essere nato dal ruolo che tutte queste forme di media sembrano aver giocato nel collasso dell'Impero sovietico. Sembrava che l'insurrezione armata vecchio stampo fosse stata soppiantata dal dissenso digitale e dalle rivoluzioni mediatiche. Era come se lo spirito delle Samizdat, esteso ed intensificato dalla proliferazione dei media “do it yourself‿, avesse reso indifendibile la tirannia statale e centralizzata dell'Unione Sovietica. Alcuni di noi sono arrivati a pensare che sarebbe stata una questione di tempo, le stesse forze avrebbero sfidato le nostre oligarchie stanche e offuscate. Inoltre, il collasso veloce e relativamente incruento dell'Unione Sovietica ha suggerito che le trasformazioni che stavano per arrivare non sarebbero state ottenute attraverso la violenza o il sacrificio personale. Sarebbe stata l'era del “win win‿, della rivoluzione senza dolore, in cui il cambiamento sarebbe avvenuto semplicemente attraverso l'etica hacker della sfida ai domini proibiti della conoscenza. Si è pensato che il potere gerarchico avesse perso punti. Nel '99, nella sua Reith lecture (ndt: lettura radiofonica annuale riservata a personaggi di spicco, e mandata in onda dalla BBC), Anthony Giddens poteva ancora assicurare che “il monopolio dell'informazione sul quale era basato il sistema sovietico non aveva futuro in una cornice di comunicazione globale intrinsecamente aperta‿. Giddens e altri teorici sociali erano parte di un più ampio movimento che sognava che le profonde differenze politiche che avevano diviso le precedenti generazioni stavano per essere colmate. Ciò sembrava credibile grazie all'ubiquità di uno dei miti dominanti dell'era dell'informazione, un mito condiviso sia dagli attivisti sia dagli imprenditori della new economy: il mito secondo cui “la conoscenza ti renderà libero‿. Questa narrativa fondante della tecnocultura, visibile fin dal “Computer Lib‿ di Ted Nelson in poi, ricicla (in forma intensificata) l'antica idea per cui la conoscenza e la libertà non solo solo connesse ma addirittura si implicano. Il fatto che la convinzione che la conoscenza sia necessariamente connessa alla libertà non sia stata quasi mai messa in discussione è dovuto, in parte, alla sua genealogia. “Gli antichi stoici e i più moderni razionalisti sono d'accordo con i cristiani su questo argomento‿. E “saprai la verità e la verità ti renderà libero‿. Come Isaia Berlin sottolineava nel 1968, “non si tratta di un'affermazione scontata, neanche su basi empiriche‿. Si tratta, scriveva Berlin, di “una delle convinzioni meno plausibili che sia mai stata accolta da pensatori profondi e influenti‿ (From Hope and Fear Set Free‿, 1968) Oltre ad essere erronea, tutto l'apparato retorico che la accompagna, la trasparenza, la libertà , l'accesso, la partecipazione, e anche la creatività, ha finito per costituire la fondazione ideologica del “capitalismo comunicativo‿, trasformando le micropolitiche omeopatiche dei media tattici nell'ala sperimentale delle cosiddette “industrie creative‿, “corroborando così il modo temporale del capitale post-fordista: l' “a-breve-termine‿(Ned Rossiter & Geert Lovink, “Dawn of the Organised Networks‿, su [3]) L'efficace conquista neoliberista della retorica della “libertà‿ e della “creatività‿ ha riaperto una vecchia linea di faglia che la prima ondata di media tattici aveva fatto in modo di colmare: la linea di faglia che divideva gli artisti dagli attivisti politici. Il teorico e attivista Brian Holmes descriveva le sue origini come risalenti (come minimo) alle cultural politics degli anni 60. Descriveva un gap tra “ la tradizionale classe lavoratrice preoccupata della giustizia sociale e l'impegno della nuova sinistra per l'emancipazione individuale, il pieno riconoscimento e l' espressione delle identità particolari‿. Seguendo questa logica, i responsabili delle fondazioni aziendali e i think tank degli anni '80 e '90 hanno felicemente immesso sul mercato variazioni di antichi valori controculturali, rendendo gli interventi degli artisti (inclusi i tattici dei media) profondamente (anche se involontariamente) de- politicizzati. Holmes va oltre, descrivendo (o asserendo, non sono sicuro) una critica secondo cui “l'esplorazione narcisistica del sé, della sessualità e dell'identità sono diventate il leitmotiv della cultura urbana borghese. La libertà e la licenza artistica hanno portato, in effetti, alla neoliberizzazione della cultura‿(Brian Holmes, “The Scandal of the Word Class: A Review of David Harvey, A Brief History of Neoliberalism (Oxford UP 2005). Il tono puritano e autoritario di questa analisi è un po' snervante. In realtà, questa tendenza potrebbe portare ad un filisteismo grossolano ed opprimente, e potrebbe segnalare che stanno arrivando tempi peggiori. L'appello di Franco Berardi "Bifo" al meeting di Senigallia affinché le Telestreet (e per estensione tutti gli artisti/attivisti) ampliassero le loro ambizioni viene sempre di più accolto. C'è un numero crescente di ispirazioni a cui possiamo guardare: il successo degli Yes men nell'ottenere la distribuzione nei cinema mainstream, i contributi globali ad “alto voltaggio‿ di Yomango, i movimenti di protesta e le vaste iniziative di Witness.org [4], che prevedono la fornitura di media diy ad attivisti indigeni come campagna parallela ai processi legali per i diritti umani. Questi e molti altre interventi sottolineano la crescente volontà di globalizzare strategicamente il dissenso. Questo processo è stato accompagnato da una crescente volontà di abbandonare il culto dell'effimero – una delle parole d'ordine dei media tattici. Al posto della guerrilla attivista mordi e fuggi, ora si richiede l'esatto opposto, la “durata‿. È il momento delle responsabilità a lungo termine e degli impegni più profondi nei confronti delle persone e delle organizzazioni che ruotano intorno alle questioni contestati. Uno degli esempi più straordinari di questa linea di sviluppo è Women on Waves [5], una fondazione olandese ideata da Rebecca Gomperts, studentessa di medicina all'Università di Amsterdam e specializzata come dottore abortista, che ha seguito corsi di arti visive alla Rietveld Academy e di navigazione alla Enkhuizen Zeevartschool. Il successo più celebrato di Women on Waves è l'Abortion Boat, una grande clinica galleggiante che sfrutta tatticamente la legge marittima. La nave viene ancorata fuori dalle acque territoriali dei paesi dove l'aborto è illegale; sull'Abortion Boat le donne possono ricevere informazioni e abortire, grazie ad un team di medici olandesi (inclusa la dottoressa Gomperts), perché la nave è legalmente in territorio olandese. Quindi, le donne sono assistite attivamente e le organizzazione locali sono supportate nella loro lotta per la legalizzazione dell'aborto. A lato degli interventi pratici dell'Abortion Boat, Women on Waves utilizza anche l'arte e il design come parte integrante della campagna globale per il diritto all'aborto. Ad esempio l'installazione I had an Abortion consiste di magliette appese su un appendi abiti di filo spinato; sulle magliette è stampata la frase “ho abortito‿ in tutte le lingue europee. Sul loro sito può essere trovato un diario di una donna brasiliana che parla della sua esperienza nel vestire una di queste magliette. Il suo racconto dimostra come i modi di discorso politico esplorati dai pionieri dei media tattici sono tuttora validi. Infatti, il messaggio stampato su queste magliette (“I had an abortion‿) è preferibile a qualcosa come “legalizzare l'aborto‿, che sarebbe sembrata una forma primitiva di agit prop. “La funzione di queste magliette‿ – scrive la donna brasiliana - “non è quella di trasformarmi in bersaglio. Non è questo il punto: si tratta di dare supporto a tutte quelle donne senza volto. Come dire: non ti preoccupare, va tutto bene, tu vai bene‿. Questo adempie a una delle prime direttive dei classici media tattici, che, al contrario del tradizionale agit prop, son pensati per invitare al dialogo. L'esempio di Women on Waves ci ricorda che le politiche culturali, in senso moderno, sono state in larga parte una creazione del movimento per i diritti delle donne. Coloro che mettono in questione il loro valore dovrebbero ricordare che il femminismo è anche servito a trasformare le vite e le politiche di molti uomini a cui fu spiegato (a volte dolorosamente) che non stavano riuscendo ad applicare alle loro vite quotidiane i valori democratici che sposavano pubblicamente. La maniera in cui la “cultura‿ è centrale, e non periferica, alle esigenze femministe è efficacemente esplorato da Terry Eagleton nel suo libro After Theory, che descrive la centralità della “grammatica‿ in cui le rivendicazioni femministe erano inserite. “Valore, discorso, immagine, esperienza ed identità sono qui il vero linguaggio della lotta politica, perché sono parte integrante di tutte le politiche etniche o sessuali. Modi di sentire e forme di rappresentazione politica sono, a lungo termine, cruciali quanto il provvedere alla cura dei bambini o la parità degli stipendi‿(AfterTeory, Penguin 2003). Questo linguaggio politico espanso non era stato articolato solo dagli attivisti e dagli scrittori, ma anche da molte importanti artiste. Le artiste sono state fondamentali nello spostare il centro di gravità del mondo dell'arte degli anni '60 e '70 dal formalismo di Greenberg ad una nuovo naturalismo espressivo e centrato sul soggetto, che rimane influente ed importante anche oggi. Qualunque siano state le ambiguità, le impurità e i problemi (e ce ne sono molti) non dovremmo essere tentati dall'abbandonare l'eredità essenziale delle politiche culturali. . DIY Survival non è solo nel fallire nell'affrontare i dilemmi e le scelte che ci stanno davanti. C'è molto nell'ambito della scena attivistico/artistica che, come il libro dei C6, replica acriticamente i miti dell'età dell'informazione, insieme con le ossessioni gemelle dell'era delle notizie schiave degli indici d'ascolto, lo spettacolo e l'immediatezza. Se il DIY Survival dei C6 è riuscito in qualche cosa, è come opportuno promemoria del fatto che si deve non solo andare avanti ed imparare nuove lezioni ma anche, e soprattutto, imparare la lezione giusta.