Gruppo Zero: differenze tra le versioni

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(Zero come zen. L'apoteosi del silenzio, della luce e del movimento)
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Infatti, da un lato, sembra raccogliere a piene mani l’eredità del [[Dada|Dadaismo]] e del [[Futurismo]], perché, al suo interno, '''la composizione tradizionale sparisce per far spazio ad avveniristiche installazioni dallo straordinario impatto visivo''', '''fatte di tubi di plexiglas''', '''alluminio o acciaio collegati insieme con motori meccanici''', '''dischi rotanti e lampade al neon'''.
 
Infatti, da un lato, sembra raccogliere a piene mani l’eredità del [[Dada|Dadaismo]] e del [[Futurismo]], perché, al suo interno, '''la composizione tradizionale sparisce per far spazio ad avveniristiche installazioni dallo straordinario impatto visivo''', '''fatte di tubi di plexiglas''', '''alluminio o acciaio collegati insieme con motori meccanici''', '''dischi rotanti e lampade al neon'''.
  
Da un altro lato, nel suo essere prima di tutto uno '''spazio di sperimentazione''', questo gruppo sembra aver costituito un reale '''punto di riferimento per molti artisti che operavano proprio in quegli anni''', tanto è vero che, sulla sua scia, sorsero: a '''Padova''' nel '''1959''' il [[Gruppo N]] (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi); a '''Milano''' nel '''1960''' il [[Gruppo T]] (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi)  e nel '''1964''' il [[Mid]] (Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca, Alberto Marangoni); a '''Roma''', fra il '''1962''' e il '''1967''', il [[Gruppo Uno]] Uno (Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Giuseppe Uncini), il [[Gruppo 63]] (Lucia Di Luciano, Lia Drei, Francesco Guerrieri, Giovanni Pizzo),  l’[[Operativo R]] e il [[Binomio Sperimentale P]]; a '''Genova''' il [[Tempo 3]]; a '''Parigi''' nel '''1959''' l'[[Équipe 57]] (Juan Cuence, Angel Duart, Josè Duarte, Augustin Ibarrola, Juan Serrano) e, nel '''1960''', il [[Grav]] (Hugo Demarco, Garcia Miranda, Horacio Garcia Rossi, Julio Le Parc, Francois Molnar, Francois Morellet, Moyano, Servanes, Francisco Sobrino, Joel Stein, Yvaral); in '''Olanda''' il [[Grupp Null]] (Armando, Jan Henderikse, Henk Peeters, Jan Schoonhoven); negli '''Stati Uniti''' l’[[Anonima Group]] (Ernst Benkert, Francis Hewitt, Edwin Meisz Koviskij); in '''Unione Sovietica''' il [[Gruppo Dvijzenije]] (A. Beniaminova, Galina Bitt, V. Buturlin, Wladimir Grabenko, Francisco Infante, Sergej Icko, Klave Nedelko, Lev Nusberg, Natalia Prokuratova); in '''Giappone''' il [[Gutai]](Yoshihara. Murakami, Yamazaki, Tanaka, Shiraga, Motonaga...).
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Da un altro lato, nel suo essere prima di tutto uno '''spazio di sperimentazione''', questo gruppo sembra aver costituito un reale '''punto di riferimento per molti artisti che operavano proprio in quegli anni''', tanto è vero che, sulla sua scia, sorsero: a '''Padova''' nel '''1959''' il [[Gruppo N]] (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi); a '''Milano''' nel '''1960''' il [[Gruppo T]] (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi)  e nel '''1964''' il [[Mid]] (Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca, Alberto Marangoni); a '''Roma''', fra il '''1962''' e il '''1967''', il [[Gruppo Uno]] Uno (Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Giuseppe Uncini), il [[Gruppo 63]] (Lucia Di Luciano, Lia Drei, Francesco Guerrieri, Giovanni Pizzo),  l’[[Operativo R]] e il [[Binomio Sperimentale P]]; a '''Genova''' il [[Tempo 3]]; a '''Parigi''' nel '''1959''' l'[[Équipe 57]] (Juan Cuence, Angel Duart, Josè Duarte, Augustin Ibarrola, Juan Serrano) e, nel '''1960''', il [[Grav]] (Hugo Demarco, Garcia Miranda, Horacio Garcia Rossi, Julio Le Parc, Francois Molnar, Francois Morellet, Moyano, Servanes, Francisco Sobrino, Joel Stein, Yvaral); in '''Olanda''' il [[Grupp Null]] (Armando, Jan Henderikse, Henk Peeters, Jan Schoonhoven); negli '''Stati Uniti''' l’[[Anonima Group]] (Ernst Benkert, Francis Hewitt, Edwin Meisz Koviskij); in '''Unione Sovietica''' il [[Gruppo Dvijzenije]] (A. Beniaminova, Galina Bitt, V. Buturlin, Wladimir Grabenko, Francisco Infante, Sergej Icko, Klave Nedelko, Lev Nusberg, Natalia Prokuratova); in '''Giappone''' il [[Gutai]](Yoshihara, Murakami, Yamazaki, Tanaka, Shiraga, Motonaga...).
  
 
Da un altro lato ancora, infine, inseguendo come '''obiettivo estetico e poetico''' proprio la '''ricerca di una nuova tecnologia legata al movimento e alla dimensione ludica della sperimentazione''', il '''Gruppo Zero''' è stato il primo nucleo artistico che '''ha anticipato''' l’[[Espressionismo astratto]], la [[Pop art]], l’[[Op art]], il [[Minimalismo]], il [[Neoespressionismo]], etc, '''perché per primo ha dato vita a delle installazioni ''en plein air'', cioè delle installazioni mobili e volanti, centrate sul dinamismo circolare, sulla purezza del colore bianco''' (il ''Manifesto Bianco'', del resto, fu scritto proprio da [[Fontana Lucio|Fontana]] nel    ) '''e sulle infinite variazioni della luce e del silenzio, accolti come elementi espressivi universali, in grado di realizzare l'ideale artistico del “vuoto pieno”'''.
 
Da un altro lato ancora, infine, inseguendo come '''obiettivo estetico e poetico''' proprio la '''ricerca di una nuova tecnologia legata al movimento e alla dimensione ludica della sperimentazione''', il '''Gruppo Zero''' è stato il primo nucleo artistico che '''ha anticipato''' l’[[Espressionismo astratto]], la [[Pop art]], l’[[Op art]], il [[Minimalismo]], il [[Neoespressionismo]], etc, '''perché per primo ha dato vita a delle installazioni ''en plein air'', cioè delle installazioni mobili e volanti, centrate sul dinamismo circolare, sulla purezza del colore bianco''' (il ''Manifesto Bianco'', del resto, fu scritto proprio da [[Fontana Lucio|Fontana]] nel    ) '''e sulle infinite variazioni della luce e del silenzio, accolti come elementi espressivi universali, in grado di realizzare l'ideale artistico del “vuoto pieno”'''.

Revisione 17:48, 12 Feb 2007

Genere o movimento artistico

Arte cinetica o Arte programmata
Heinz Mack - Galleria Schmela, 1961

Personaggi o gruppi

Gruppo Zero: Otto Piene, Hienz Mack, Günther Uecker, Yves Klein, Piero Manzoni, Lucio Fontana, Jean Tinguely, Joseph Beuys, Piero Dorazio...

Luogo

Düsseldorf (Germania)


Storia

ZERO 0.jpg

Il panorama internazionale. Parola d'ordine: ricominciare da Zero!

Alla fine degli Anni Cinquanta il mondo dell’arte era ancora diviso tra Realismo e Astrattismo: da un lato le tendenze emozionali ed esistenzialiste dell’Arte informale (una corrente dalle matrici incerte ma implicitamente legata all’eredità del Surrealismo e dell’Impressionismo); dall’altro lato, invece, in posizione nettamente antitetica, il linguaggio mimetico-concretista d’ispirazione sovietica.

Entrambe le soluzioni, pur lasciando molte aspettative insoddisfatte, impedivano il formarsi di nuove correnti antagoniste, perché occupavano saldamente il centro della scena artistica mondiale (o, per lo meno, europea).

In una situazione così, un giovane artista desideroso di tentare nuove strade avrebbe avuto serie difficoltà ad emergere: l’unica possibilità era quella di unirsi in gruppo con altri artisti e cercare l’appoggio di ulteriori gruppi.

È esattamente quanto accadde in Italia, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Belgio, Stati Uniti, Unione Sovietica e Giappone, dove, nell’arco di pochi anni, sorsero un gran numero di movimenti (Gruppo N; Gruppo T; Mid; Gruppo Uno; Gruppo 63; Operativo R; Binomio Sperimentale P; Tempo 3; Équipe 57; Grav; Gruppo Zero; Grupp Null; Anonima Group; Gruppo Dvijzenije; Gutaï; etc…), tutti contrassegnati da una medesima volontà programmatica: dare vita ad una nuova forma d’arte, capace sia di rendere giustizia alla modernità e alla sua complessa struttura sociale sia di dare nuova visualità agli oggetti e ai fatti del mondo, permettendone una rappresentazione meno concreta e/o informale.

L’intento comune era quello di trovare uno ‘spazio’ comunicativo libero, che permettesse agli artisti di “ricominciare da zero”, di sperimentare nuovi materiali e nuove procedure espressive e di farlo attraverso l’applicazione della scienza e della tecnica, creando veri e propri quadri-oggetto dalle caratteristiche ora vibranti, ora luminescenti, ora riflettenti, ora dinamiche.

Forte era, quindi, la commistione con il Futurismo e il Dadaismo, ma anche con altre e diverse tendenze artistiche, nascenti proprio in quegli anni: il Nouveau Realisme, la Nova Tendencija, l’Arte cinetica o Arte programmata, l’Arte visuale, l’Arte gestaltica, l’Arte immersiva, il Neocostruttivismo, l’Op art, Fluxus, etc…

Si sentiva il bisogno di esplorare nuove possibilità e di ridefinire il ruolo dell’arte (intesa non più come espressività soggettiva dell’Io, ma come scientificità tecnologica e rigorosa), dell’artista (visto, pertanto, come un tecnico di laboratorio destinato a lavorare in équipe) e dello spettatore (che, da mero recettore passivo, diventa un fondamentale collaboratore attivo e creativo).

In questa prospettiva si tentò di riproporre la lezione delle avanguardie storiche (dalla didattica del Bauhaus alle opere in movimento di Duchamp; dai i progetti di architettura mobile di Tatlin alle sculture animate da luci artificiali di Moholy-Nagy; dal rigore geometrico dotato di sorprendenti effetti volumetrici delle superfici bianche di De Stijl alle piatte campiture in bianco e nero del Mac), rinnovandola attraverso la consapevolezza tutta moderna dell’intrinseco dinamismo spazio-temporale dell’esistenza umana (un tema assai dibattuto in quegli anni).

Da tale fruttuosa ibridazione di passato e presente, derivarono opere sperimentali di grande impatto sociale e preveggentemente orientate al futuro, attraverso le quali si cercava di raggiungere l’obiettivo comune di una riconciliazione fra ragione e natura, fra necessità e casualità, fra artificio e verità. Anzi: quello ancor più ambizioso di arrivare a fondare un’arte universale, a forte valenza didattica, che potesse diffondersi in tutte le classi sociali, promuovendo l'avvento della democrazia (una necessità avvertita con urgenza dopo gli orrori dei totalitarismi europei della prima metà del Novecento).

Tuttavia, proprio a causa della natura essenzialmente utopica di un simile impegno politico e sociale, molti gruppi dovettero presto sciogliersi, soverchiati sia dalla rapida diffusione dell’arte statunitense (soprattutto Espressionismo astratto e Pop art, a cui i vari artisti finirono per cedere, anche se, grazie a questa scelta, riuscirono a trovare nuova vitalità, contribuendo alla nascita delle austere geometrie minimaliste) sia, soprattutto, dall’emergere di personalità sempre più forti ed indipendenti, che mal tolleravano le regole comuni.

In effetti, l’ideale di una collaborazione collettiva che includesse non soltanto l’obbligo della spartizione del merito e dei proventi delle opere (essendo tutte rigorosamente frutto di un lavoro unanime e collegiale), ma anche un programma unico di ri-definizione del rapporto arte-mercato-società (legato all’idea di produrre composizioni seriali a basso costo in modo da far cessare le speculazioni economiche effettuate nelle aste), si era rivelata pressochè impraticabile.

Per cui, dato che questa scelta aveva creato più problemi che vantaggi, venne immediatamente accantonata e ridotta ad una generica “intesa contro il formalismo e l’immobilismo delle teorie precostituite”, che prevedeva una certa libertà di opinioni e di atteggiamenti.

Tale soluzione, però, portò alla progressiva dissoluzione dell'ideale collaborativo che stava alla base della nascita dei gruppi e questo non tanto perché era diventato possibile confrontarsi apertamente sui temi comuni (fatto di per se stesso costruttivo), ma perché molti membri avevano cominciato a pensare che tanto più questo confronto fosse stato polemico e contraddittorio, tanto più sarebbe apparso produttivo e vitale.


Düsseldorf anno Zero

Gruppo Zero - Manifestazione - Galleria Schmela, 1964

In un clima di simile fermento culturale, dove forte era l’esigenza non solo di reagire al predominio artistico dell’Astrattismo e del Realismo, ma anche di “ricominciare da zero”, rompendo con la tradizione pittorica e scultorea del passato e annullando il bagaglio delle esperienze artistiche precedenti, si colloca il Gruppo Zero.

Questo movimento venne fondato a Düsseldorf nel 1957 (esattamente a dieci anni di distanza dall’uscita del film di Roberto Rossellini Germania anno zero e del saggio di Edgar Morin L'an zéro de l'Allemagne) ad opera dello scultore Otto Piene e del pittore Heinz Mack, ai quali si unì successivamente anche l’artista visuale Günther Uecker.

E il nome scelto non fu certo un caso, come ci tiene a sottolineare Piene in un articolo del 1964 pubblicato sulla omonima rivista ufficiale del Gruppo, edita a partire proprio dal 24 aprile 1958: «il nome Zero […] è stato il risultato di una ricerca durata parecchi mesi (la mia prima proposta era stata “Chiaro“). Noi [Mack, Piene ed io] abbiamo, sin dall’inizio, inteso Zero come un nome che stesse ad indicare una zona di silenzio piena di nuove possibilità e non come un’espressione di nichilismo dal vago sapore dadaista […]. Zero è la zona incommensurabile dentro la quale una situazione vecchia e stantia si trasforma in una situazione nuova e fresca».

All’origine dell’istituzione del Gruppo, il cui scopo era appunto quello di ricominciare a fare arte "partendo da zero", stava l’idea, figlia delle teorie scientifiche di quegli anni, che l'esperienza sensibile non è né assoluta né immutabile, ma relativa e mutevole (cioè diversa a secondo del punto di vista preso in considerazione) e che, quindi, la percezione è un fenomeno fluido che si svolge nel continuum spazio-temporale della realtà, alla quale veniva pertanto attribuito un significato virtuale di perpetuo mutamento (cfr. Fluxus).

Il Gruppo, quindi, si presentava come un movimento d’avanguardia ispirato al Nouveau Realisme e intenzionato a guidare l’arte mondiale verso una nuova era (cosa che realmente fece per quasi un decennio, ossia fino al 1966, anno del suo definitivo scioglimento), creando sia una nuova concezione artistica che un nuovo linguaggio delle immagini e della forma.

Per le sue caratteristiche esso può essere fatto rientrare nell’ambito dell’arte ottico-cinetica e, di conseguenza, in quello della pura sperimentazione ludica (d'altro canto, il gioco, dopo la tragedia delle due guerre mondiali, era diventato quasi una necessità culturale).

L’Arte visuale e quella Cinetica si proponevano, infatti, come un tentativo giocoso, ma al tempo stesso provvisorio ed incompiuto, di saggiare tutte le possibilità di rappresentazione artistica del movimento, sia reale (ossia prodotto meccanicamente dall’opera d’arte stessa, attraverso dispositivi interni - quali ingranaggi, pistoni, leve - o esterni - quali fonti d’aria e di calore - oppure provocato volontariamente dallo spettatore, azionando specifici comandi) sia illusorio o virtuale (ossia dovuto alle qualità intrinseche dell’opera d’arte - quali volumi, rilievi, grafismi, etc… - o alle qualità estrinseche dell’ambiente circostante - quali giochi di luci, ombre e riflessi - oppure legato alle differenti risposte percettive dello spettatore che variavano al variare della sua posizione nel tempo e nello spazio).

In particolare, l’Arte cinetica, detta anche Programmata (termine coniato dal suo più valido esponente, Bruno Munari, che, nel maggio 1962, insieme a Giorgio Soavi, presentò a Milano, presso un negozio Olivetti, una mostra denominata, appunto, “Arte Programmata”), considerava la scientificità dello sviluppo creativo come l’elemento basilare dell’arte.

Di conseguenza, essa aveva come obiettivo quello di diffondere una forma di espressività che fosse anche e soprattutto un “luogo di ricerca” e uno “spazio di sperimentazione”, all’interno del quale fosse possibile legare insieme soggetto (spettatore) e oggetto (opera d’arte) in un’unica visione-del-mondo, diversamente da quanto accadeva nell’Arte informale, che invece separava nettamente questi due elementi.

L’idea stessa di movimento, del resto, inteso sia in senso reale che illusorio/virtuale, evidenziava il forte protagonismo conscio/inconscio dello spettatore, il quale, per la prima volta nella storia dell’arte, veniva finalmente considerato parte integrante del processo di creazione artistica, sulla scia dell'intuizione fenomenologico-husserliana, in base alla quale non è solo il soggetto a modificare l’oggetto, ma è anche l’oggetto a modificare il soggetto.

Insomma, alla base dell’Arte cinetica e, quindi, del programma del Gruppo Zero, c’era l’idea fondamentale che lo spettatore non subisse passivamente l’opera d’arte, ma ne modificasse attivamente la rappresentazione: non è un caso, del resto, se, a tal proposito, nella sua presentazione alla mostra organizzata nel ‘62 a Milano da Munari, Umberto Eco parlò proprio di “opera aperta”, dicendo che «la forma [è] costituita da una ‘costellazione’ di elementi in modo che l’osservatore possa individuarvi, con una ‘scelta’ interpretativa, vari collegamenti possibili, e quindi varie possibilità di configurazioni diverse; al limite intervenendo di fatto per modificare la posizione reciproca degli elementi».

Ora, se da un lato la rivalutazione dello spettatore come protagonista attivo dell’opera d’arte ha decretato il successo dell’Arte cinetica in generale e del Gruppo Zero in particolare, dall’altro lato, invece, l’aspetto di sperimentazione giocosa, in quanto legato alla contingenza del momento e alla casualità delle situazioni, ha finito per penalizzare le aspettative di questi due movimenti, perché, dopo un iniziale consenso, dovuto più alla curiosità che ad un reale apprezzamento delle opere, l’attenzione del pubblico svanì rapidamente.


Arte di sera bel tempo si spera...

Piene, Mack e Uecker - "Zero-Karneval", 1964

La genesi storica del Gruppo risale a quando, nel 1957, Piene e Mack, entrambi formatisi alla Kunstakademie (Accademia delle Belle Arti) di Düsseldorf, dettero vita, con la successiva collaborazione di Uecker, a quelle che essi stessi chiamarono Abendausstellungen (esposizioni di una sera).

Si trattava di mostre collettive autogestite, che, in realtà, erano delle occasioni di incontro tra artisti, critici e studenti d’arte, le quali duravano per l'appunto il tempo di una sera e si svolgevano in un clima festoso da salotto aristocratico illuminato.

All’interno delle Abendausstellungen, che di solito si tenevano presso l’atelier privato di Piene, non solo venivano esposte opere sia dei tre capiscuola del Gruppo che di altri artisti ad essi programmaticamente vicini, ma si intavolavano anche interessanti riflessioni estetiche sulle “nuove tendenze espressive delle avanguardie”.

Paradigmatica per entrare nello spirito delle Abendausstellungen è senza alcun dubbio la settima mostra, intitolata "Das rote Bild" (letteralmente: "Il quadro rosso") e tenutasi nell’atelier di Piene, il 24 aprile del 1958.

Durante questa mostra, che vide la partecipazione di circa quarantacinque artisti (tra i quali, oltre agli stessi Mack, Piene e Uecker, comparivano anche Bartels, Klein, Graubner e Mavignier), il leitmotiv unificatore era, da un lato, la “pulizia del colore” – i quadri esposti dovevano essere tutti rigorosamente monocromi (nel caso specifico rossi) e purgati da ogni riferimento informale, gestuale o neo-espressionista – e, dall'altro, la necessità di creare un’arte risolutamente proiettata verso il futuro e avulsa da qualsiasi forma di pathos e/o di espressività individuale.

Per l’occasione venne pubblicato il primo numero della rivista “Zero”: in esso si invocava la necessità di abbellire il mondo partendo appunto da zero e lavorando in una sorta di “Zero-Zone”, ossia di spazio mentale vuoto ed incontaminato, grazie al quale l’artista poteva sentirsi libero di dare sfogo alla propria creatività.

Da un punto di vista plastico, durante queste mostre serali le discussioni vertevano quasi sempre attorno ad un’unica questione: come poter usare la tela, che è uno strumento eminentemente concreto, per rappresentare fenomeni che invece sono astratti e universali, come il movimento e lo scorrere del tempo.

A ben guardare, però, la soluzione del problema era gia insita nella domanda stessa o, meglio, nel diverso significato dato alla parola tela da questi artisti. Per loro la tela non era più latabula rasa sulla quale l’artista, inteso come individualità soggettiva, imprime se stesso e la propria Weltanschauung, ma il luogo artistico della sperimentazione.

Attraverso le Abendausstellungen, dunque, il Gruppo entrò in contatto, fin dagli esordi, con molte delle personalità emergenti in quel periodo sulla scena artistica europea, soprattutto di cittadinanza milanese e parigina, grazie alle quali riuscì a maturare nuove idee e a trovare nuove ispirazioni.

Gli stimoli più interessanti provennero soprattutto da Lucio Fontana (per la formulazione del suo concetto di spazio che urtava contro la tradizionale bidimensionalità del quadro e che lo aveva portato all'uso di buchi, tagli, pietre e crateri nelle sue opere, ma anche per il suo sagace sperimentalismo energetico); Piero Manzoni (per l’intelligenza critica, l’impiego spregiudicato dei materiali e la capacità di ricavarne proprietà ottiche); Jean Tinguely (per il suo vivace sperimentalismo cinetico-visuale, grazie al quale, usando un sofisticato equipaggiamento tecnico, riuscì a fissare la rappresentazione artistica del movimento); Yves Klein (per la sua nozione di “percezione pura del colore” e per la perfetta immaterialità delle sue architetture d’aria e delle sue tele monocromatiche).

Inoltre, sempre grazie a queste mostre, il Gruppo ottenne pure l’appoggio di altri artisti di fama internazionale, i quali, pur non essendo mai appartenuti de facto al gruppo stesso, tuttavia vi gravitarono intorno, condividendone a pieno l’impostazione di base.

È questo il caso di Bruno Munari, Alexander Calder, Pol Bury, Jean Le Parc, Sol LeWitt, Joseph Kosuth e, più in generale, degli esponenti del Grav (ossia il Groupe de recherche d’art visual, sorto a Parigi nel 1960).

In questo senso, possiamo dire che il Gruppo Zero, per tutta la sua durata, fu una vera e propria rete internazionale di artisti, all’interno della quale, più che le idee di Piene, Mack e Uecker, che pure avevano fondato il movimento, furono quelle di Manzoni e di Klein, fautori di un nuovo idealismo e convinti sostenitori della capacità dell’uomo di produrre verità spirituali, a giocare un ruolo sostanziale.

Fu così che, spronato da più parti, il Gruppo, a partire già dai primi Anni Sessanta, cominciò a configurarsi come una comunità di azione e ad imporsi in maniera sempre più marcata all’interno e all’esterno della Germania, portando avanti l’idea che l’arte, quella vera, quella che “ricomincia da zero”, non ha né limiti espressivi (essendo volta alla sperimentazione continua) né confini geografici (essendo apolide e cosmopolita).

A consolidare l’anima cosmopolita del movimento, tuttavia, oltre alle Abendausstellungen, fu anche il fatto che, sin dai primi anni, gli esponenti del Gruppo parteciparono a svariate mostre collettive, la prima delle quali fu quelle intitolata “Motion in Vision – Vision in Motion” e che si tenne ad Anversa nel 1959.

Seguirono poi l’esposizione “Monochrome Malerei” di Leverkusen del 1960, l’esposizione “Bewogen-Beweging” di Amsterdam del 1961 e la storica mostra di Nova Tendencija, organizzata a Zagabria, sempre nel 1961, da Matko Mestroviæ, presso il Museo d’Arte Contemporanea.

Ma è senz'altro alla Galerie Diogenes di Berlino', nel 1963, che si celebrò il momento culminante della vita del movimento: da quell'esposizione, in poi, infatti, Zero divenne un punto di riferimento artistico internazionale.

Dopo la morte di Yves Klein (1962) e di Piero Manzoni (1963), la guida del Gruppo tornò nelle mani di Piene, Mack e Uecker, i quali iniziarono ad associarsi anche con artisti e gruppi dalla fisionomia programmatica non sempre omogenea e in linea con la poetica di Zero: è il caso di Enrico Castellani, Gotthard Graubner, Daniel Spoerri, François Morellet, Almir Mavignier, Jesus Rafael Soto, Paul Bury, Arnulf Rainer, etc…

Spostandosi di mostra in mostra, come una sorta di circo ambulante con palloncini e donne vestite di nero, il Gruppo si sciolse definitivamnete nel 1966, dopo un'ultima imortante mostra al Kunstmuseum di Bonn.

Poetica

Zero come zen. L'apoteosi del silenzio, della luce e del movimento

Rivista ufficiale del Gruppo Zero fondata nel 1958 - In copertina: Günther Uecker Dancer, 1964

Fra i diversi movimenti artistici che sono sorti in Europa all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, il Gruppo Zero, nonostante non abbia mai redatto un vero e proprio manifesto, è quello che presenta la fisionomia teorica meglio delineata, ancorché enigmatica: infatti, più che da una metodologia collettiva, gli artisti del Gruppo sembravano animati da una tensione filosofica zen, in quanto avevano fatto del silenzio, della luce e del movimento il proprio focus tematico.

Essi avevano una visione-del-mondo di dimensione utopica: consideravano l’immaginazione il luogo dove le antinomie si sciolgono e guardavano ai fenomeni della realtà sensibile come a delle rappresentazioni artistiche naturali.

In tale contesto i concetti dominanti erano la luminosità, la dinamicità ed il silenzio, cosicché le opere d’arte altro non erano che rappresentazioni della luce e del movimento (reale o illusorio/virtuale che fosse), talvolta ritmicamente accompagnate da apposite melodie sonore, aventi lo scopo non di rompere il silenzio, ma di sottolinearlo.

Già a partire dal nome, lo spirito del Gruppo, questo ideale del "vuoto pieno” che contrassegnava concretamente ogni opera ed ogni installazione, era facilmente intuibile: lo zero, infatti, essendo quella cifra neutra e neutrale che divide i numeri positivi da quelli negativi, rappresenta l’equilibrio, l’armonia, la simmetria, il silenzio, la sintesi degli opposti. Esso traccia quella zona d’esistenza intermedia che, pur essendo vivente e vitale, non è comunque soggetta ai vincoli di concretezza e materialità dell’esistenza stessa.

Ecco allora che Zero deve essere inteso nella più larga espressione “ripartire da zero”, “fare tabula rasa”, cancellare qualcosa che non serve, per costruire qualcosa che invece serve.

In questo senso, se, da una parte, la parola "zero" può equivalere alla parola "nulla", dall'altra può anche essere sinonimo di libertà. Dalle convenzioni. Dai vincoli. Dalla tradizione.

Ma può voler anche dire molte altre cose, come ci suggerisce Piene stesso in un suo scritto del '63: «Zero è silenzio. Zero è inizio. Zero è rotondo. Il sole è Zero. Zero è bianco. Il deserto è Zero. Il cielo sotto lo Zero: la notte. Zero è il fiume che scorre. Zero è l’occhio. L’ombelico. La bocca. Il buco del culo. Il latte. Il fiore. L’uccello. Silenzioso. Plananate. Io mangio Zero, io bevo Zero, io veglio Zero, io amo Zero. Zero è bello. Movimento, movimento, movimento. Gli alberi in primavera, la neve, il fuoco, l’acqua, il mare. Rosso, arancione, giallo, verde, indaco, blu, viola, Zero. Arcobaleno. 4 3 2 1 Zero. Oro e argento, rumore e vapore. Circo nomade. Zero. Zero è silenzio. Zero è inizio. Zero è rotondo. Zero è Zero» (Otto Piene, Der Neue Idealismus, 1963).

Una simile carica mistica, così come l'aspirazione a voler rifondare le teorie e le pratiche artistiche partendo da zero, è ben evidente anche in un'altra dichiarazione di Otto Piene, contenuta nel primo numero della rivista "Zero": «un quadro è una specie di zuffa in cui l’uomo immediatamente si immischia. Pratichiamo i quadri come gli amici o i vicini, li amiamo come compagni dell'intimità e confidiamo loro le esperienze felici e dolorose. Pure il quadro più grande, più ampio, più esteso, ci costringe 'al gomito a gomito', ci riporta alla breve distanza. Il quadro corrisponde al tipo d'uomo che ha un luogo, una dimora, e non al tipo del viandante che percorre grandi spazi sconosciuti. Che resta dell'arte, della capacità figurativa dell'uomo, se guardiamo il mondo da sopra? Le piramidi e il duomo di Colonia e tutti i grattacieli d'America sono innocue alghe nel mare della caducità, se ci allontaniamo ancora un po'. I loro secoli si riducono ad un battere di ciglia se appena pensiamo che devono durare in eterno. Non è il batter d'occhio il momento più grande, in cui l'uomo è la vastità stessa, crea da solo il proprio spazio, il batter d'occhio con cui si intuisce l'eternità? L'uomo, che utilizza il proprio spirito e adegua lo spirito per conservare il proprio corpo, l'uomo, che fa esperienza di un batter d'occhio senza tempo, di una realtà paradisiaca, di misurare cioè completamente lo spazio libero, quest'uomo ha il paradiso in sé. Segue con lo sguardo i raggi di luce che da se stesso produce. I raggi abbracciano l'uomo e l'universo, la luce lo attraversa ed egli cammina nella luce».

Da un punto di vista artistico, la volontà di azzerare le esperienze artistiche del passato si tradusse concretamente in un allontanamento sempre più marcato dal "quadro" e dalla "scultura" tradizionali e in una tenace tendenza alla pittura monocroma, cioè una pittura predominata da un unico colore (di solito il bianco, anche in omaggio al Manifesto bianco scritto da Lucio Fontana nel ).

Questa tendenza alla monocromia fu incarnata soprattutto da Heinz Mack e Yves Klein: Mack, infatti, oltre che un neoconcretista, era anche un pittore monocromo e lo stesso poteva dirsi per Klein, il quale, anzi, a partire dal 1957, anno in cui inventò il famoso "pigmento IKB" (Internationla Klein Blue), venne ri-battezzato "Yves le Monochrome".

Secondo l'impostazione teorica del Gruppo, insomma, al posto dei classici colori a olio di matrice astratto-informale, l’artista-Zero doveva usare un unico colore, cercando di renderlo il più ricco e variopinto possibile facendo ricorso ai nuovi mezzi espressivi offerti dal progresso scientifico e tecnologico, ovverosia la plastica, la luce elettrica, i motori, gli specchi, il ghiaccio, il vapore, etc., perché solo con questi strumenti era possibile colorare lo spazio e creare assemblaggi dalle variegate proprietà modulanti.

In effetti, per ottenere tali risultati di vivacità e dinamicità, gli artisti di Zero adoperarono diverse soluzioni: si servirono di elementi strutturali organizzati in modo sequenziale (è il caso delle trame seriali di Otto Piene o delle superfici ritmicamente cosparse di chiodi di Günther Uecker ); si servirono dell'elemento motorio, con il risultato di ottenere effetti di luce legati al movimento degli oggetti (è il caso delle coreografie luminose di Otto Piene e dei giochi di luce dinamici di Heinz Mack ); si servirono di sorgenti luminose e di effetti luminosi di riflessione (è il caso delle superfici in alluminio di Heinz Mack, dei dischi di luce di Günther Uecker e delle strutture riflettenti di Adolf Luther ).

Il Gruppo, tuttavia, più che ai fenomeni ottici, s’interessò in modo particolare alla variabilità/mutabilità/dinamicità dell’oggetto e agli effetti della partecipazione dello spettatore sull’opera d’arte, arrivando così a coniare la nozione del tutto sconvolgente di “arte allargata”.

"Arte allargata" significava che l’artista, nella sua produzione, doveva riconsiderare completamente lo spazio artistico, facendovi intervenire, da un lato, lo spettatore, in quanto attore protagonista, e, dall’altro, il senso del moto, come elemento artistico innovativo, dotato di infinite potenzialità espressive e tutto da scoprire e sperimentare.

Dopotutto, l’idea-progetto di Uecker, Mack e Piene era proprio quella di una sperimentazione artistica su base dinamico-gestaltica: gli artisti del Gruppo, infatti, attraverso espliciti agganci al post-costruttivismo geometrico di Max Bill, attraverso l’interesse di Piene per la sky art, attraverso la tendenza alla pittura monocroma di Mack e Klein, attraverso le ricerche dinamiche di Uecker, attraverso il Neoconcretismo di Mack e attraverso gli spunti tratti dal manifesto “Nulla contro nulla” di Manzoni e Castellani, si erano dati come obiettivo quello di realizzare un’arte che si sviluppasse attorno ai due concetti di scienza e di tecnologia.

Un’arte, insomma, che non avesse paura di sperimentare nuovi materiali e nuovi metodi di creazione delle immagini, ma che, invece, riuscisse a rompere con il passato e la tradizione, canacellando l'idea classica di quadro e introducendo una forma d'arte innovativa, fondata non più sui colori classici della pittura, ma sugli elementi del mondo naturale, usati in alternanza a a quelli del mondo industriale.

Insomma, puntando sui valori essenziali della percezione, il Gruppo, nel suo essere sia uno spazio di sperimentazione che un modello ispiratore per molte tendenze artistiche di quegli anni (come ad esempio il Gruppo T ed il Gruppo N in Italia), si orientò verso gli aspetti strutturali più propriamente psicologici e gestalistici dell’arte: “quegli elementi della formatività che costituiscono il dipinto come struttura dinamica” e in grado di coinvolgere lo spettatore in una collaborazione attiva. Per esempio ottenendo effetti visivi diversi con lo spostamento del punto di osservazione oppure impiegando quella che Gillo Dorfles ha definito per l'appunto un’“ambiguità gestaltica”, cioè una deformazione apparente dell’immagine ottenuta sfruttando alcune illusioni ottiche (come fa Piene in alcuni suoi lavori su metallo, dove applica l’effetto di rifrazione della luce).

In questo senso, allora, il Gruppo Zero rappresenta il filo rosso in grado di legare insieme passato, presente e futuro, perché, ancor più marcatamente di altri gruppi, può essere a buon diritto considerato sia come il prosecutore dello spirito artistico delle avanguardie storiche, sia come il modello ispiratore di molti movimenti artistici internazionali di quello stesso periodo, sia, infine, come il lungimirante precursore dell’arte oggi contemporanea.

Infatti, da un lato, sembra raccogliere a piene mani l’eredità del Dadaismo e del Futurismo, perché, al suo interno, la composizione tradizionale sparisce per far spazio ad avveniristiche installazioni dallo straordinario impatto visivo, fatte di tubi di plexiglas, alluminio o acciaio collegati insieme con motori meccanici, dischi rotanti e lampade al neon.

Da un altro lato, nel suo essere prima di tutto uno spazio di sperimentazione, questo gruppo sembra aver costituito un reale punto di riferimento per molti artisti che operavano proprio in quegli anni, tanto è vero che, sulla sua scia, sorsero: a Padova nel 1959 il Gruppo N (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi); a Milano nel 1960 il Gruppo T (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi) e nel 1964 il Mid (Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca, Alberto Marangoni); a Roma, fra il 1962 e il 1967, il Gruppo Uno Uno (Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Giuseppe Uncini), il Gruppo 63 (Lucia Di Luciano, Lia Drei, Francesco Guerrieri, Giovanni Pizzo), l’Operativo R e il Binomio Sperimentale P; a Genova il Tempo 3; a Parigi nel 1959 l'Équipe 57 (Juan Cuence, Angel Duart, Josè Duarte, Augustin Ibarrola, Juan Serrano) e, nel 1960, il Grav (Hugo Demarco, Garcia Miranda, Horacio Garcia Rossi, Julio Le Parc, Francois Molnar, Francois Morellet, Moyano, Servanes, Francisco Sobrino, Joel Stein, Yvaral); in Olanda il Grupp Null (Armando, Jan Henderikse, Henk Peeters, Jan Schoonhoven); negli Stati Uniti l’Anonima Group (Ernst Benkert, Francis Hewitt, Edwin Meisz Koviskij); in Unione Sovietica il Gruppo Dvijzenije (A. Beniaminova, Galina Bitt, V. Buturlin, Wladimir Grabenko, Francisco Infante, Sergej Icko, Klave Nedelko, Lev Nusberg, Natalia Prokuratova); in Giappone il Gutai(Yoshihara, Murakami, Yamazaki, Tanaka, Shiraga, Motonaga...).

Da un altro lato ancora, infine, inseguendo come obiettivo estetico e poetico proprio la ricerca di una nuova tecnologia legata al movimento e alla dimensione ludica della sperimentazione, il Gruppo Zero è stato il primo nucleo artistico che ha anticipato l’Espressionismo astratto, la Pop art, l’Op art, il Minimalismo, il Neoespressionismo, etc, perché per primo ha dato vita a delle installazioni en plein air, cioè delle installazioni mobili e volanti, centrate sul dinamismo circolare, sulla purezza del colore bianco (il Manifesto Bianco, del resto, fu scritto proprio da Fontana nel ) e sulle infinite variazioni della luce e del silenzio, accolti come elementi espressivi universali, in grado di realizzare l'ideale artistico del “vuoto pieno”.

Intevista a Heinz Mach

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Intervista di Stephan von Wiese tenutasi a Mönchengladbach nel 2004 e tratta dall'opuscolo della mostra "Zero 1958-1968. Tra Germania e Italia" (Palazzo delle Papesse, Siena, 29 maggio-19 settembre 2004)

Quali erano alla fine degli anni Cinquanta i punti di contatto essenziali tra la tua arte e la scena sperimentale italiana, soprattutto milanese? Era un dare e avere? Come lo hai recepito? Un dare e avere. Anche se mi rifiuto di pensare che esistano parametri in grado di misurarli. Lucio Fontana aveva certamente una posizione di spicco come artista della generazione precedente.

È così? Si, era così! Si dice continuamente che noi vedevamo in Fontana la figura di un padre, ma non è vero. Per come ho inteso io Fontana, per lui era evidente che noi stessimo facendo qualcosa di prossimo al suo tipo di lavoro, con effetti straordinariamente stimolanti e di conferma: si sentiva isolato quando lo conobbi a Milano, alla fine degli anni Cinquanta. Aveva la superiorità di un gentiluomo, non voleva ammettere di trovarsi isolato, ma di fatto era così. Questo valeva anche per Manzoni e Castellani, e ancor di più per Lo Savio. Lo Savio era un uomo completamente isolato e mi ha abbracciato, nel senso: finalmente qualcuno che mi crede! Fontana invece mi ha dato una spinta straordinaria: mi ha procurato una tale carica di adrenalina il fatto che un uomo come Fontana, che io avevo sempre ammirato, mi degnasse di attenzione. Un rapido esempio: entrando per la prima volta nell’atelier di Fontana scoprivo alla parete una piccola opera, un rilievo in metallo, di Heinz Mack. L’avevo esposta da Iris Clert a Parigi nel 1958 e fu l’unico esemplare a esser venduto in quell’occasione. Dunque l’aveva comprato Fontana. Quindi significava qualcosa per lui, e anche per me ha significato tanto che lui apprezzasse il mio lavoro.

Chi organizzò allora il tuo primo incontro con Fontana? Fu Nanda Vigo, che a quel tempo era la fidanzata di Manzoni, a portarmi per la prima volta nell’atelier di Fontana. Prima Manzoni gli telefonò. Fontana tenne poi il discorso di presentazione quando feci la mostra da Azimut a Milano. Successivamente rievocò per me quei pensieri basilari in un testo. Evidentemente si trattava di un discorso molto impegnativo - e questo davanti ad una telecamera poiché la televisione era presente. Allora trovavamo che fosse sensazionale [...].

Che cosa ti interessava in particolare delle nuove posizioni in campo artistico che si trovavano sotto lo stesso tetto di Azimut, una galleria d’arte? Talvolta mi sono difeso da Manzoni, più per una sensazione, perché molte cose nella rappresentazione di sé mi sembravano troppo dadaiste. Voleva regalarmi una lattina con i suoi escrementi, per cui gli dissi: grazie tante. E questo lo irritò molto. Castellani era invece molto tranquillo: apprezzai fin dall’inizio il suo lavoro. I rilievi bianchi hanno la funzione di riflettere la luce. Vidi subito anche la vicinanza diretta con Fontana: cosa si può fare con una tela bianca se non dipingerci sopra? Questo Castellani lo ha fatto, a modo suo chiaramente: lo ha dimostrato anche Manzoni, tagliando la tela a pezzi e poi rincollandoli insieme e altre cose simili. Se si parlava di Yves Klein, Manzoni replicava: “Io non sono affatto per la monocromia, sono per l’a-cromia”. L’aspetto di Castellani era scarno, ascetico, Manzoni era corpulento, vivace. Entrambi da Azimut collaboravano in modo molto stretto, ma erano programmaticamente in contrasto, come Don Chiscotte e Sancho Panza. Nanda Vigo era invece una bella donna, molto sensuale, dell’alta aristocrazia italiana. Si è assai interessata ai miei esperimenti artistici con onde di vetro, più precisamente Edelitglass, portandoli avanti a modo suo, ma facendo tutto in maniera molto più coerente, essendo di formazione architetto. E c’era Dadamaino, che fece della produzione seriale la sua bandiera. In Italia feci quindi l’esperienza - che avevo già fatto in Francia, in Belgio, in Olanda - di come in luoghi diversi d’Europa accadessero contemporaneamente cose spiritualmente affini, come un pozzo artesiano in un luogo inatteso: qualcosa viene improvvisamente alla luce e si manifesta, qualcosa che è già avvenuto nella mia cerchia più stretta, e viceversa. Questo fenomeno era molto incoraggiante per tutti gli artisti che partecipavano.